Servizio di leva: qui prodest?
Coscritti, volontari e soldatesse...
di Nicolò Manca
C'è un elemento che accomuna due problemi molto diversi ma che è necessario riformare entrambi con urgenza: il servizio di leva e il sistema pensionistico.
Tale elemento comune è identificabile in un'esigenza di giustizia.
Infatti, cosi come non è giusto penalizzare le generazioni future e l'economia nazionale con i costi connessi con le pensioni di anzianità e gli altri meccanismi che sbilanciano il rapporto contributo-pensione e lavoratore-pensionato, analogamente è ingiusto che solo una parte dei cittadini (generalmente quelli meno fortunati) debbano pagare il dazio del servizio di leva obbligatorio, perché proprio un dazio per pochi è diventato "il sacro dovere del cittadino" previsto dall'articolo 52 della Costituzione.
Ove si considerino, infatti, i giovani riformati, quelli esonerati, gli obiettori di coscienza, quanti prestano servizio come ausiliari (retribuiti) nei corpi armati e non armati dello Stato, i volontari in ferma breve e in servizio permanente, gli accompagnatori di grandi invalidi e, infine, la massa che opta per il servizio civile, a prestare il servizio di leva obbligatorio restano pochi sfortunati che, nella generalità dei casi, sono semplicemente dei giovani disinformati sulle scappatoie consentite dalla legge.
Basterebbe questa considerazione per stigmatizzare la necessita di abolire con urgenza il servizio di leva obbligatorio e adottare quello volontario.
Far trascorrere ancora sette anni per completare la riforma, significa prolungare un'ingiustizia ancora per sette anni, senza neanche che nel frattempo vengano adottati provvedimenti compensativi per attenuare in parte questa discrasia nel campo dei diritti-doveri del cittadino.
Ma incombe anche un altro fattore che esige tempi brevi per la riforma: è l'incalzare degli impegni internazionali di peace-keeping (mantenimento o ristabilimento della pace) e di peace-enforcing (imposizione della pace) sotto l'egida dell'O.N.U., della N.A.T.O. e di altri organismi internazionali.
La Bosnia, la Macedonia e l'Albania rappresentano già impegni gravosi.
Incombono il Kosovo e il Corno d'Africa.
Nonostante i rassicuranti «siamo pronti» del ministro Scognamiglio, non siamo pronti affatto, sotto il profilo quantitativo, a fronteggiare tali impegni nel loro insieme.
Per questo occorre procedere con urgenza al completamento delle unità con i volontari; prima tra tutte, la Brigata Sassari, considerato che la Sardegna è l'unica Regione che dispone contemporaneamente dei volontari, delle caserme e dei poligoni necessari.
A livello nazionale non ci sono volontari sufficienti? È un problema, ahimè, esclusivamente di quattrini.
Quando nel 1972 le forze armate degli Stati Uniti passarono dalla leva obbligatoria a quella volontaria, non riuscirono a costituire le unità programmate finché non elevarono la retribuzione dei soldati.
Il problema è di una linearità assoluta: se un giovane non trova gratificante lo stipendio, non fa il volontario!
Anche l'entità dello stipendio è facilmente quantificabile: è quella minima che consente di attirare il numero di giovani, comprensivo di un margine per la selezione, sufficiente per completare le unità previste dalla politica di difesa nazionale.
Questo implica l'accantonamento della sequenza logica, ma non funzionale, basata sull'assioma: «con prefissate risorse si può realizzare uno strumento militare che consente di conseguire certi obiettivi». L'approccio politico deve essere invece: «per conseguire gli obiettivi definiti dalla politica della difesa occorrono queste risorse».
In merito al problema della leva è interessante rilevare come la Caritas abbia assunto recentemente il ruolo di paladina del servizio di leva obbligatorio. La spiegazione di tale atteggiamento è banale: fino a oggi, infatti, la Caritas si serviva a piene mani dell'opera degli obiettori di coscienza per svolgere i suoi pur nobilissimi compiti. Gli obiettori, a loro volta, trovavano vantaggioso "timbrare il cartellino" del servizio di leva senza sottostare ai disagi, al codice penale militare e alle altre restrizioni riservate ai coetanei in divisa. È chiaro che la realizzazione di forze armate esclusivamente su base volontaria non consentirà più alla Caritas di attingere a questo serbatoio.
Per quanto concerne il servizio militare femminile, appaiono sacrosanti i motivi di giustizia e di pari opportunità uomo-donna che sottendono alle giuste aspettative delle aspiranti donne-soldato.
Va da sé che al pari degli uomini, e a maggior ragione, le soldatesse non possono che essere volontarie.
Le difficoltà che vengono prospettate in materia sono perlopiù strumentali, incluso il pericolo di stupri nelle caserme paventato nei giorni scorsi dal procuratore militare di Torino Pierpaolo Rivello: è stato un palese tentativo di mettere le mani avanti perché questo genere di reati siano gestiti, anziché dalla magistratura ordinaria, da quella militare. Ciò legittimerebbe la necessita di mantenere in vita questa seconda branca della magistratura anche nella imminente prospettiva della sua minor necessita futura (personale volontario quantitativamente ridotto e a minor rischio di reato rispetto alla massa dei soldati di leva).
Il vero problema, come per i professionisti, e rappresentato dai costi. Raddoppiare alcune strutture, diversificare 1'equipaggiamento e l'addestramento e apportare altri adeguamenti, si ripercuoterebbe inevitabilmente sull'istituzione militare in termini economici. È sufficiente quindi quantificare tali costi e porre il paese di fronte a questo aspetto finanziario. Tutto il resto e importante, molto importante: ma se prima non si passa attraverso queste forche caudine, è superfluo parlarne.
Lo stesso problema del ruolo e dell'impiego del personale femminile nell'ambito dei reparti non rappresenta uno spauracchio. L'esperienza già maturata dalle forze armate di altri paesi ci consentirebbe di partire subito e non da zero.