Manifestazione filo palestinese in piazza del Duomo a Milano nel
gennaio 2009
La memoria enciclopedica del nostro direttore ha ripescato dai suoi infiniti cassetti un articolo che avevo preparato per il numero 52 di Excalibur del mese di febbraio 2009; il titolo era quello riportato qui sopra e l'argomento purtroppo il medesimo che ci angoscia in questi giorni. Sono passati 12 anni, ma le argomentazioni che esponevo allora possono riproporsi purtroppo ancora oggi.
Qualche dettaglio è cambiato: Israele per ora non ha messo gli scarponi dei suoi soldati sul suolo di Gaza; a dar manforte verbale ad Hamas allora erano la Siria e l'Iran, mentre ora - con la Siria dilaniata dalla sua guerra personale - l'altro attore è la Turchia, a testimonianza della mutata strategia del sultano Erdogan e l'Iran purtroppo è passata dal sostegno quasi solo verbale a un appoggio militare ed economico. Allora come ora gli Stati Uniti inauguravano una nuova presidenza: nel 2009 con Obama e nel 2021 con Biden, ma l'ambiguità di fondo dei democratici americani è immutata.
Il resto è pressoché uguale con la solita esplosione di odio contro Israele e contro gli Ebrei in genere, accusati di non essere ancora una volta vittime inermi delle aggressioni altrui.
La prassi è la medesima: Hamas con pretesti banali lancia centinaia di razzi verso Israele (e stavolta anche su Gerusalemme tanto per collaudare i nuovi vettori iraniani con 250 km di gittata), Israele reagisce bombardando i soliti obiettivi militari (anche adesso nascosti tra infrastrutture civili) e il mondo si indigna chiedendo che Israele cessi la sua reazione e compatendo le povere vittime palestinesi. Che poi sono davvero vittime, ma non di Israele, bensì dei terroristi di Hamas e dell'ectoplasma di Abu Mazen. La solita commissione Onu è pronta ad accusare Israele di "crimini contro l'umanità".
È una storia tristemente infinita. E Di Maio auspica una "proporzionalità" nella risposta di Israele. Chissà come si misura: forse un referendum su Rousseau.
Ecco le riflessioni di 12 anni fa (da Excalibur n. 52, febbraio 2009).
Nelle "brevi" riportate dalle agenzie in occasione dell'ultimo conflitto nella striscia di Gaza - erano i primi giorni di gennaio - si davano notizie sull'andamento del conflitto tra Israeliani e Hamas, si raccontava delle manifestazioni di protesta avvenute in alcune nazioni europee e infine con le manifestazioni in Italia, in particolare a Milano dove la protesta islamica si era conclusa con una preghiera in piazza del Duomo.
Questa breve notizia mi spinge a sviluppare, nella limitatezza dello spazio disponibile, tre riflessioni.
1. Il conflitto Israele - Hamas.
I motivi di questo ennesimo scontro sono ormai noti: termine della tregua di sei mesi, decisione di non rinnovo da parte di Hamas e aumento del numero di missili lanciati sulle città israeliane. Ai ripetuti ultimatum lanciati da Israele Hamas ha risposto con altri razzi (in sei anni ne sono stati lanciati oltre 8.600). L'apertura delle ostilità è risultata inevitabile: e quindi i soliti bombardamenti mirati alle strutture militari e ai tunnel che partivano soprattutto dall'Egitto, arteria vitale per il traffico d'armi e di altre cose, e infine l'operazione terrestre già minacciata. Dopo 22 giorni il conflitto si è concluso con una tregua unilaterale decisa da Israele e il ritiro delle truppe.
Qualcosa di nuovo? Sembrerebbe di no. In realtà si possono fare alcune considerazioni. La prima è la rinnovata combattività dell'esercito israeliano, che, dopo la mezza disfatta del Libano, ha ritrovato la determinatezza e la coesione che gli erano peculiari. La seconda considerazione è che la pretesa islamica di una invincibilità derivata direttamente da Dio in virtù della loro ideologia, che vede la morte come supremo scopo della vita, non si è mai vista. Nessun martire nelle vie di Gaza, nessuna autobomba a seminare stragi, ma donne e bambini usati come scudo da parte degli invincibili, abitazioni civili, ambulanze, scuole, ospedali, sedi dell'Onu usate come riparo o come base di lancio per i missili.
E per quanto riguarda gli alleati del fronte arabo non si è mosso nessuno. Non i più moderati e nemmeno i Palestinesi della Cisgiordania, accusati addirittura di connivenza con il nemico; nessuna delle nazioni protettrici, Siria e Iran e nemmeno gli Hezbollah del sud del Libano, che hanno lanciato qualche missile e non hanno avuto il coraggio di rivendicarlo.
Di fronte a questa catastrofe ideologica del mondo arabo, la maggior parte del quale sarebbe ben felice di liberarsi della pianta maligna di Hamas ma non ha il coraggio di dirlo, si contrappone la ritrovata identità e compattezza di uno stato, Israele, uno dei pochi stati al mondo - insieme agli Stati Uniti - che può chiedere ai propri figli di morire per la libertà del proprio paese.
2. La protesta del mondo occidentale.
Tralasciamo la routine delle manifestazioni dei paesi arabi, che ormai hanno l'aspetto di un'eterna scampagnata o il gesto patetico del Venezuela che ha espulso l'ambasciatore israeliano da Caracas. Come sempre è il mondo occidentale che si mobilita, inondando i giornali e mass media in genere di foto, corrispondenze e notizie che ormai ricalcano il solito clichè di vittime da una parte e carnefici dall'altra. Si parla di eccessiva reazione, spropositata, abnorme, di uso di armi proibite, di massacri, con un bilancio ragionieristico dei morti, quanti di qua e quanti di là, quante donne e bambini, civili e militari e via discorrendo.
E naturalmente quella bellissima parola che piace ai "Santoro" di tutta Europa: genocidio. È una parola ben strana in questo contesto. Fu genocidio quello degli Ebrei in Europa, che da dodici milioni rimasero in sei milioni; o quello dei Cambogiani, un terzo dei quali scomparve sotto le cure di Pol Pot; o quello dei Tutsi, due terzi dei quali massacrati nei paradisi dell'Africa centrale.
Il "genocidio" palestinese ha un che di miracoloso: nel 1947 erano un milione e duecentomila. Dopo sessant'anni di massacri, a Gaza ci sono un milione e mezzo di Palestinesi, in Cisgiordania ce ne sono quasi due milioni e nell'odiata Israele sono quasi un milione e mezzo e altri cinque milioni nel resto del mondo, battezzati benevolmente dall'ineffabile Onu come "profughi" con una risoluzione che offende ogni logica.
Ma la potenza mediatica è in grado di far accettare il termine "genocidio" - che dovrebbe essere usato con un meritato rispetto - come reale ed esso viene passivamente accolto da chi preferisce non pensare o pensare con la testa degli altri.
E così si continua ad assolvere i Palestinesi, assegnando loro in tal modo una patente di irresponsabilità, invece di aiutarli a crescere affinché possano realizzare la loro aspirazione a uno stato sovrano. Nessuno che abbia osato affermare che gli oltre mille morti di queste tre settimane sono una esclusiva responsabilità dei prodi capi di Hamas, che continuano nel loro farneticante delirio di morte al suono della solidarietà dei soliti "buoni".
3. Le proteste in Italia.
La musica è la solita, ma l'orchestra sta cambiando. I soliti della sinistra, i soliti cattolici benpensanti che assegnano superbamente le patenti di buoni e cattivi, il solito ineffabile D'Alema che accusa l'Italia di essere "rozza e ignorante" perché non la pensa come lui.
Ma qualcosa di nuovo si muove sulle nostre piazze, qualcosa che tutti hanno visto ma a cui - a mio parere - non si è dato eccessivo peso. A Milano e Bologna il 3 gennaio, a Milano il 10 gennaio, a Roma il 17 gennaio: piazze e sagrati delle chiese occupati - dopo il rituale incendio di bandiere israeliane - per una preghiera collettiva. Tra inni di odio antisemita si alza un'improvvisata preghiera e i sagrati di San Petronio e del Duomo diventano il pavimento di un'ideale moschea.
Nella tradizione islamica vi sono alcuni elementi costitutivi, spesso trascurati, che per un vero credente sono fondamentali. Uno di questi - fitrat o khilqat - si ancora al concetto dell'islam quale religione naturale dell'uomo, concetto secondo il quale tutti gli uomini nascono nello stato di islam "naturale". Uno degli adith di Maometto (che fanno parte della tradizione) recita: «
Ogni bambino alla sua nascita nasce, secondo il piano di Dio, fitrat. Sono i genitori che ne fanno un Ebreo o un Cristiano».
La preghiera sul sagrato del Duomo di Milano non è altro, quindi, che una testimonianza del fatto che l'islam è la religione a cui dobbiamo inchinarci, poiché è nella nostra natura, e la religione alla quale quel Duomo è consacrato - il cristianesimo - non è altro che una "deviazione". Nasce da questo concetto, pietra angolare dell'islam, il fatto che chi abbandona la religione musulmana è punibile con la morte, perché l'apostasia è un "delitto contro natura". È in questo contesto che la preorganizzata preghiera sul sagrato delle nostre chiese va letta e assume di conseguenza un carattere di offesa, di sfida, di violenza ideologica, di fronte alla quale - come sempre - abbiamo chinato il capo. Alle grida del muezzin, le nostre campane tacciono.
Ciò che avverrà in futuro è al momento indecifrabile: sono troppe le variabili in gioco e vanno dalle prossime elezioni in Israele, alla capacità dell'Egitto di essere determinato nel bloccare il flusso d'armi verso quell'immenso colabrodo che è il sottosuolo di Gaza, alle determinazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti. E, soprattutto, alla voglia dei Palestinesi di crescere, di diventare finalmente un popolo adulto e responsabile, capace di guardare la realtà e di accettarla.
E quando i Palestinesi capiranno che in Israele la sicurezza è più importante della pace, nonostante il fascino di questa magica parola, allora forse si aprirà un nuovo scenario.