Sopra: il mondo di Pietro
Sotto: Benedetto XVI, inascoltato
profeta
Ci sono argomenti che per la loro complessità vanno trattati con delicatezza. E ci sono universi impenetrabili, che vengono attraversati da bagliori di presunta illuminazione terrena, trattati alla stregua di
scoop che interessano in genere il mondo dello spettacolo e sui quali la cautela è d'obbligo.
Il problema della Chiesa e delle accuse di pedofilia, che in queste settimane hanno inondato le pagine di tutti i giornali, è uno di quegli argomenti che è difficile affrontare da qualunque punto di vista.
Sarebbe decisamente riduttivo cercare di sapere non tanto se le accuse sono vere o meno, quanto se il fenomeno è così diffuso da meritare tanto spazio nelle cronache di questi giorni.
Ogni anno oltre 150 milioni tra bambine e bambini subiscono atti sessuali da parte di adulti: si va dal mondo palese del mercato del sesso soprattutto nei paesi asiatici, a quello seminascosto della pedopornografia (dopo droga e prostituzione è il terzo giro d'affari illeciti del mondo), fino a quello nascosto delle violenze consumate nel buio delle case. È evidente che i 450 mila preti cattolici del mondo incidono in queste cifre spaventose in misura irrisoria.
La pedofilia è un reato orribile, è un obbrobrio commesso a danno dei più indifesi, i bambini. Ed è ancora più grave, se fosse possibile, quando questa ignominia è commessa da chi fa leva sulla fiducia delle persone che affidano loro dei bambini.
L'accusa che si rivolge alla Chiesa non è tanto di avere al suo interno preti pedofili, ma quella di aver creato una catena di omertà nei loro confronti. L'impatto mediatico che ha investito questo argomento e la strumentalizzazione nei riguardi della Chiesa Cattolica - che ha le sue responsabilità - sembrano andare oltre l'evidenza dei fatti e quasi prescindere da ciò che è oggetto di scandalo. Si sente dire, ad esempio, che l'abolizione del celibato porterebbe a una soluzione del problema. Nessuno si preoccupa però di approfondire i freddi e impietosi numeri. Sembrano questioni di lana caprina, ma tutto questo mette in evidenza quanto la strumentalizzazione sia mirata. Le solite indagini dei soliti fanatici americani, che hanno sviscerato statisticamente il problema, ha posto in evidenza che gli abusi sessuali su minori commessi dai preti protestanti (sposati, si badi bene) e da quell'universo di professori di ginnastica, allenatori di squadre sportive giovanili, anch'essi in grande numero sposati, è da cinque a dieci volte superiore, in percentuale, a quello dei preti cattolici.
E allora?
Un fatto è certo: esistono preti pedofili. E alcuni dei casi riportati dai giornali, casi non nuovi ma vecchi anche di decenni, sono certamente disgustosi, come quello che vede oggetto di abusi bambini sordomuti. Molti di questi casi sono sfociati in condanne definitive e gli accusati hanno confessato le loro colpe. Fuggiamo dalle generalizzazioni, affermando che questo universo di perdizione non è solo all'interno della Chiesa: ciò che fa orrore nell'uso che la stampa ha fatto di tali episodi è che si parli di "preti pedofili" e non di "pedofili preti". La questione è in questo rovesciamento di termini. E l'altro obbrobrio è il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva.
La colpa della Chiesa è che non ha "saputo" - non che non abbia "voluto" - prevenire questo male: maggiori controlli e attenzioni nella fase di formazione al sacerdozio forse avrebbero contribuito a ridurre drasticamente questo male.
E allora?
Da questi episodi sono partite proposte sconcertanti. Si va dalla richiesta di dimissioni di Benedetto XVI (quasi fosse a capo di un'azienda nella quale "non poteva non sapere"), fino alla richiesta di monitoraggio delle istituzioni ecclesiastiche (magari da parte di una nuova ineffabile Commissione dell'Onu). Una sorta di "democratizzazione" delle istituzioni cattoliche, addirittura con i vescovi eletti con la partecipazione del laicato, in nome di un "ritorno alle origini", fino ad arrivare alla trasformazione della Chiesa in una federazione di Chiese nazionali, le più illuminate addirittura governate in forma "democratica".
L'attacco a Benedetto XVI, le supposte conseguenti difficoltà del Vaticano, unite alla complessa connessione che esiste nella Chiesa tra il peccato e il perdono, tra la difesa della riservatezza e la pulizia delle sue istituzioni e il contemporaneo rispetto per la giustizia, sembrano dare l'idea di un attacco contro una Chiesa fragile.
A me sembra il contrario. Mai come ora la Chiesa è forte. La chiarezza del messaggio di Benedetto XVI, la sua decisa posizione nel tentativo di ricomposizione tra tradizione e ragione, la riconquistata "centralità" della Chiesa di Roma, hanno spinto sia la Chiesa anglicana che quella ortodossa a riconsiderare i sentieri abbandonati dell'unica Chiesa sotto il segno di Cristo.
L'eredità che Benedetto XVI al momento della sua elezione si è trovato a dover gestire, lui "umile lavoratore della vigna del Signore", come disse nel suo primo discorso, è stata pesante. Succedeva a Giovanni Paolo II, e la differenza tra i due apparve subito grandissima. Karol Wojtyla fu eletto Papa a soli cinquant'otto anni, Ratzinger ne aveva venti di più. Ma se Giovanni Paolo II puntò su un pontificato incentrato sui viaggi e sui grandi gesti simbolici, in linea con i tempi dell'immagine, il nuovo Benedetto XVI ha incardinato il suo pontificato sulla forza del pensiero e delle parole, che lasciano meno segni ma incidono di più. Ed ha incentrato la sua opera sul rafforzamento della fede e della Chiesa.
Le sue riflessioni attorno al fondamentale principio della verità, che esiste e va ricercata e sull'uomo, che non può definirsi tale se non cerca la verità con costanza e umiltà, sono una scomoda rottura, una stridente contrapposizione con il pensiero contemporaneo, che ha eletto il relativismo come dottrina di comportamento, perché in tal modo è tutto più facile, perché così scompare la necessità di ricercare sé stessi, perché tutto è uguale, tutto è vero e non occorre fare scelte.
Nella sua enciclica del giugno 2009 "Caritas in veritate" ribadisce che l'amore cristiano non è tale se non è radicato nella verità.
Ed è da questa lettura che è partito il suo lavoro sulla liturgia, sull'unità dei cristiani e sul dialogo con le altre religioni. E su questi, a volte con errori e con mancanza di diplomazia, si è mosso in modo coerente e continuo, non preoccupandosi minimamente della "correttezza politica" del suo operare.
Quel nitore, che ricerca nella Chiesa e nel suo rapporto con l'esterno, è ricercato anche all'interno, con la netta condanna degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti e religiosi e i ripetuti richiami contro l'inimicizia e il carrierismo.
È un Papa scomodo, che fa delle parole e del pensiero la sua forza. Che non manda messaggi comodi da ascoltare, ma, al contrario, espone pensieri difficili, da meditare. In un mondo che si crogiola nel suo lassismo, i cinque anni di Benedetto XVI, mite e combattivo, sono stati appunto anni di guerra.
Il suo discorso a Ratisbona, ormai quasi cinque anni fa, è stato il manifesto straordinario di un cristianesimo pienamente consapevole di sé e dell'eredità che in esso è contenuta: il legame indistruttibile di fede e di ragione, di una fede che sa dire le proprie ragioni e che non rinuncia alle sue radici e che sa opporsi con forza al fideismo violento dell'islam. Le fedi non sono tutte uguali, e il Dio dei cristiani non è lo stesso che ispira l'islam. E questa affermazione dà fastidio. Pensate che c'è chi ha sostenuto che il Papa avrebbe dovuto "chiedere scusa" per queste affermazioni: non erano "politicamente corrette".
E allora? È un caso che ora Papa Ratzinger debba affrontare la crescente ondata di scandali all'interno della Chiesa?
Sicuramente non c'è un complotto, quelli li lasciamo ai lettori di Dan Brown: ma è indubbio che esiste un crescente senso di fastidio contro un'istituzione scomoda, che non cessa di ribadire la sua decisa opposizione contro le derive che la società umana continua a perseguire e che insiste nel ricordarci cos'è la vita, quali sono i suoi confini e che cosa significa rispettarla.