Sigismondo Arquer, il "Giordano Bruno" sardo
Come si è accennato in apertura di capitolo, tra i funzionari regi di primo piano spiccava, per competenza e determinazione, l'avvocato fiscale Sigismondo Arquer. Nato a Cagliari nel 1530, laureato a 17 anni a Pisa in "utroque iure" (vale a dire in diritto civile e canonico) e poi a Siena in teologia, nel 1553 ricopriva già l'ufficio di procuratore generale del Regno di Sardegna. Rigoroso e intransigente, si inimicò le consorterie nobiliari sarde del suo tempo che invano lo accusarono di malversazioni.
Raffinato umanista che si compiaceva di arti e scienze, fu il primo scrittore a dare notizie esatte e ponderate sulla Sardegna, che - attraverso la "Cosmographia Universalis" del Münster (pubblicata a Basilea nel 1550) - furono divulgate per tutta l'Europa. Ma più che letterato fu magistrato, nel senso più elevato del termine, in quanto in lui le ragioni della legge prevalevano sempre sopra ogni altra considerazione: fatto che lo rese qualche volta spietato con gli altri e persino con sé stesso. La magistratura sarda, che vanta nobili tradizioni, può andare fiera dell'Arquer, la cui personalità non può essere diminuita rappresentandolo come transfuga religioso.
Egli infatti - come è noto - venne accusato di eresia, arrestato e, a seguito di un processo del Tribunale dell'Inquisizione, riconosciuto colpevole e bruciato al rogo, davanti al popolo e alla nobiltà di Toledo, la sera del 4 giugno 1571: l'Inquisizione non scherzava! L'"autodafé" di Toledo costituì il tragico epilogo delle lotte che dilaniarono la Sardegna, e la città di Cagliari in particolare, per di più trent'anni a partire dal 1535 e l'asserita accusa di propaganda luterana imbastita a carico dell'Arquer altro non fu che il pretesto di cui si servì il ceto nobiliare per disfarsi di un terribile anniversario.
Invero, alla base della grave accusa vi era la stretta collaborazione dell'Arquer con Sebastian Münster, luterano ex francescano, sfociata nell'opera "Sardiniæ brevis historia et descriptio", inserita nella "Cosmographia Universalis", che conteneva alcuni giudizi assai critici sul clero sardo (accusato di essere ignorante e «
impegnato più a procreare che a studiare») e sui metodi, spesso violenti, dell'Inquisizione.
Tale quadro peraltro coincideva, in larga misura, con quello raffigurato dallo stesso arcivescovo di Cagliari monsignor Antonio Parragues de Castillejo nel suo celebre "Epistolario", in cui evidenziava che molti parroci sardi erano in grado di insegnare a mala pena il Padre Nostro. In particolare l'arcivescovo evidenziava: «
il clero è così ignorante che non mi fu possibile elevare alcun ecclesiastico a Vicario Capitolare. I sacerdoti vivono poco onestamente e un canonico tiene palesemente una concubina nella sua dimora: coloro che hanno cura di anime sanno appena leggere e non sanno insegnare ai parrocchiani altro che il "Pater Noster" in dialetto, tanto che si deve attribuire a un miracolo se le popolazioni si sono conservate nel grembo della Chiesa».
Il quadro critico tracciato dall'Arquer, del resto, aveva già costituito oggetto di ferma censura da parte del pontefice Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini), che, sin dal 1462, aveva lamentato che gli scandalosi concubinati del clero sardo dilapidassero le ricchezze destinate al sostentamento dei poveri.
E allora perché tanto accanimento nei confronti dell'Arquer? È evidente che lo stesso, nella veste di avvocato fiscale, impersonava l'affermazione di sovranità dello Stato moderno che, passando attraverso l'opera di unificazione amministrativa e di accentramento del potere politico, entrava in conflitto con le aspirazioni e gli interessi, pur legittimi, della feudalità sarda. La lotta si sviluppò senza esclusione di colpi e a farne le spese fu l'Arquer, finendo i suoi giorni (dopo oltre otto anni di carcere) a Toledo sul rogo dell'Inquisizione.