EXCALIBUR 136 - gennaio 2022
nello Speciale...

La poca lungimiranza della Corona spagnola

Per contro i viceré e i funzionari regi, nella generalità dei casi, erano intenti più ad arricchire sé stessi che a fare il bene dell'Isola. Come è stato ben evidenziato, i viceré si insediavano nel Palazzo Viceregio non come moderatori e reggitori della cosa pubblica, ma come soldati in accampamento, pronti a levar le tende e poco curanti delle ripercussioni delle loro azioni di governo, tendenti non tanto al progresso dell'Isola e alla cura degli interessi dello stesso sovrano, quanto a non alterare lo stato di cose creatosi a vantaggio di una classe.
Tuttavia i discendenti degli Aragonesi e dei Catalani - che prima avevano aiutato i re d'Aragona nella conquista della Sardegna e poi rafforzato il potere regio con prestazioni di danaro e aiuti militari - erano esclusi, di fatto se non di diritto, dalle cariche più elevate, come quelle di viceré e di reggente la Reale Cancelleria, mentre nella gerarchia ecclesiastica, salvo qualche rara eccezione, non potevano andare oltre il decanato, essendo le cattedre episcopali riservate ai prelati spagnoli.
Il risentimento generato da tale esclusione era tanto maggiore in quanto, fra loro, non mancavano uomini di senno e d'esperienza con spiccate attitudini di governo e perfetta consapevolezza delle risorse, delle esigenze della Sardegna e della psicologia dei suoi abitanti. Del resto, nei momenti critici, la sicurezza dell'Isola e il prestigio del sovrano erano affidati alle loro persone. Furono le milizie levate dai feudi e da loro guidate, e non le soldatesche spagnole, che agli inizi del Cinquecento avevano fronteggiato nel Capo di Sopra le truppe al servizio del Re di Francia Francesco I (comandate da Renzo Ursino da Ceri e Andrea Doria), furono gli Aymerich, i De Sena, i Cariga, i Manca che, a capo di queste milizie, respinsero i nemici del Regno esponendo le loro vite mentre i viceré facevano gli "strateghi" a Cagliari, nel chiuso delle stanze del "Palazzo"; era sempre la classe nobiliare a organizzare la difesa delle coste contro le cruente e ricorrenti incursioni dei barbareschi.
La fedeltà alla Corona non venne da loro mai posta in discussione e il sovrano non fece mai invano affidamento sui gentiluomini e suoi soldati sardi. In siffatto contesto era evidente dunque che l'intransigenza del governo di Madrid nell'escludere i Sardi, anche se di origine spagnola, dalle più elevate cariche e in primis da quella di viceré costituiva - sul piano politico - un grave errore, in quanto l'affidare saltuariamente il governo dell'Isola, col titolo e coi poteri di viceré, a persone dell'aristocrazia sarda che avessero dimostrato idonei requisiti e specifiche attitudini avrebbe indubbiamente portato benefici per l'Isola e per lo stesso sovrano.
Nel complesso l'aristocrazia sarda spesso poteva opporre, a viceré inetti, persone ben preparate e godenti di larga fiducia nell'Isola. Anche nel clero il contrasto fra gli alti prelati e i loro subordinati era assai acuto, in quanto numerosi canonici provenienti da casate nobiliari mal sopportavano la disciplina che volevano imporre i titolari delle cattedre episcopali. Col passare degli anni la lotta, ingaggiata a difesa di interessi tutt'altro che spirituali, si fece assai aspra.
Il Cinquecento costituisce senza dubbio uno dei momenti più intricati della storia sarda in quanto vede la monarchia spagnola intensificare l'opera di unificazione amministrativa e di accentramento del potere politico. L'obiettivo era la progressiva costruzione di una nuova forma di Stato, che prendeva sempre più le distanze da quello feudale attraverso una sistematica lotta contro i particolarismi, le differenze interne, la persistenza di istituzioni, leggi e consuetudini del passato medioevale. In questo contesto, all'azione del sovrano si contrapponeva la forza con cui i ceti nobiliari cercavano di mantenere il loro ruolo politico ed economico e le prerogative da tempo consolidate.
Nel XVI secolo, l'affermazione di sovranità dello Stato passava innanzitutto attraverso l'accentramento del sistema legislativo e giudiziario: il re diventava l'unica fonte del diritto e solo a lui spettava il compito di dettare la legge e di esigerne il rispetto. Inoltre si ha la creazione della burocrazia e della diplomazia permanenti e la formazione di un esercito alle dirette dipendenze del sovrano. Tutto ciò determinò anche l'aumento della pressione fiscale, in quanto la finanza pubblica doveva essere in grado di mantenere una struttura articolata e complessa.
Grazie a tali strumenti, lo Stato acquisì una sempre maggiore capacità di presenza e di controllo sul territorio, con riguardo sia ai rapporti interni (regolamentati dalla burocrazia) e sia a quelli internazionali (su cui vigilavano, nell'alternarsi di guerra e pace, l'esercito e la diplomazia). In pratica l'intervento dello Stato, da intermittente e precario, si fa sistematico e uniforme dando luogo a un meccanismo impersonale, del tutto estraneo al concetto medioevale di "fedeltà al signore". In tale contesto, i funzionari di origine feudale, legati al sovrano da vincoli di lealtà personale, furono via via affiancati e poi sostituiti da funzionari stipendiati, dotati di specifiche competenze amministrative.
Nonostante questo processo di rapida trasformazione delle strutture politiche e sociali, la Sardegna continuava ad avere il proprio Parlamento col quale il monarca era costretto a misurarsi e a trattare ogni volta che aveva bisogno di danaro. Tale circostanza, col passare del tempo, anziché costituire momento di saldatura tra il Regno e la Corona, divenne teatro di acceso scontro.
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