EXCALIBUR 61 - settembre 2010
nello Speciale...

La battaglia di Tarnova

Gruppo di ginnasti della G.I.L. di Sassari
Cosa ricorda della battaglia di Tarnova?
Sì, nel Natale del '44 ero ancora nel Veneto. Nel '45 il battaglione Valanga venne spostato a Tarnova. Le notizie che ci arrivavano erano di un'imminente aggressione da parte degli Iugoslavi, il famoso IX corpo di Tito. In soccorso ci avevano mandato una batteria del San Giorgio, ma eravamo sempre pochi e male armati, allora verso la metà di gennaio del '45 ci diede il cambio il battaglione dei bersaglieri Fulmine, quello comandato dal maggiore Orrù, soltanto che lui per una ferita che aveva avuto in precedenza non era presente, e noi siamo rientrati a Gorizia.
Siamo stati tre giorni tranquilli, ma una sera arriva un'auto grigia e la notizia che il Fulmine era stato assalito dai partigiani iugoslavi a Selva di Tarnova e bisognava correre in suo soccorso. E io, come comandante della compagnia, mi sono messo a urlare l'adunata, i Tedeschi ci hanno dato tre camion con autisti: ho caricato armi e materiali di tutti quelli che volevano venire e siamo partiti verso Tarnova.
Io ero nel camion di punta, il primo, dopo un po' sentii un botto. La ruota sinistra del camion era andata a finire sopra una mina, che aveva messo il mezzo fuori uso. Nel frattempo è arrivato in soccorso un carro armato tedesco; è andato avanti e noi tutti appresso. All'alba sono arrivati gli altri battaglioni della Decima. Quando siamo arrivati a Tarnova abbiamo trovato il Fulmine che combatteva casa per casa. La battaglia fu durissima, ma siamo riusciti a liberarli. Dopo Gorizia ci siamo dovuti spostare verso Vicenza. I partigiani non ci davano tregua e quindi bisognava difendersi.


Ha mai preso parte a esecuzioni di partigiani?
Una volta.
È successo questo: stavamo passando in un paese, io non ricordo i nomi, ma eravamo lì, sul confine orientale, e ci è venuta incontro una donna, una donna anziana, vestita di nero, che pregava il nostro comandante di portarsi via suo figlio, perché diceva: «Mio marito l'hanno ammazzato i partigiani, era un capitano degli Alpini».
I partigiani l'avevano ammazzato perché li aveva rimproverati dei loro abusi, delle loro soperchierie; questa donna aveva paura che il figlio facesse la stessa fine e pregava il capitano Morelli [probabilmente si trattava del capitano Satta], che lo ha preso ed è venuto con noi.
Non mi ricordo adesso se il giorno dopo, di sera, ci venne incontro nuovamente questa signora, che, infilato nei capelli, aveva un messaggio. Lo consegnò al capitano e gli chiese aiuto perché il paese era stato occupato dai partigiani che ne stavano facendo di tutti i colori. Bisognava andare in aiuto. Il capitano si stava organizzando e allora ho detto «Ci vado io».
Appena arrivati ci dissero che erano scappati e che alcuni si erano rifugiati in una casa, allora siamo entrati nella casa: erano rimasti in due, uno è riuscito a scappare e l'altro sono riuscito a bloccarlo. Quindi siamo usciti da questa casa, era già buio, e non sapevo cosa fare. E pensavo, da buon cristiano, «lo dovrò far confessare, prima di...». E lo stavo accompagnando in canonica, dal prete. Lì è arrivato il comandante della compagnia [il capitano Satta], preoccupato dalla mia assenza; mi ha visto con questo prigioniero: «Cosa fai lì?» Io non sapevo cosa rispondere; lo ha preso, lo ha messo al muro, e gli altri lo hanno fucilato.
Io ho assistito alla fucilazione, ma non ho sparato, non ce l'ho fatta.


Venivate spostati continuamente...
Sì. Infatti verso la fine del '44, inizi del '45, ricordo che c'era molto freddo, i Tedeschi si erano impadroniti della Provincia di Bolzano e di altri posti e avevano vietato che si esponesse il tricolore, così il principe Borghese, saputo di questa storia, spostò la X, che era presso Vicenza, in quelle zone.
Noi del "Valanga" trovammo alloggio in una vecchia casermetta dell'aeronautica, ormai abbandonata.
Il comandante Morelli, una volta installato il proprio ufficio, fece esporre la bandiera italiana. Il giorno dopo arrivò un ufficiale tedesco pregando il comandante di toglierla perché quello era un territorio sotto la giurisdizione tedesca.
Il comandante gli rispose: «Sino a prova contraria siamo in Italia e io espongo la bandiera italiana. Il tricolore non lo tolgo». Questo se n'è andato imbufalito, e il giorno dopo è ritornato con un plotone di soldati, armati, ed è salito nuovamente a colloquio con Morelli, pregandolo di togliere il tricolore.
Quello l'ha intrattenuto un poco, discorrendo, ha fatto una telefonata. Dopo una mezz'oretta ha pregato l'ufficiale tedesco di affacciarsi alla finestra; questo si è affacciato e ha visto i suoi soldati circondati da un reparto della X con i fucili spianati. Ha capito l'antifona e se n'è andato e il tricolore è stato esposto, non è stato tolto.
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