Nè giustizialismo, nè impunità
Un "nuovo" problema che si trascina da decenni
di Toto Sirigu
Il sistema giustizia è da risanare perché è lontano da ciò che dovrebbe essere: un servizio per i cittadini. Il cittadino che subisce un torto e chiede tutela, non ha la possibilità ordinaria di vedere riconosciuti i propri diritti e, addirittura, spesso e sempre di più, rinuncia alla giustizia.
Quando si parla di riforma della giustizia molti aprono la bocca e le danno fiato. Un fatto è innegabile, bisognerebbe cambiare il modo di amministrare la giustizia per assicurare ai cittadini, accanto alla certezza del diritto, valore inalienabile e fondamentale della vita associata, un giusto processo soprattutto per quanto riguarda i tempi stessi della pronuncia, dal momento che una sentenza che arriva tardi, dopo molti anni, costituisce comunque una denegata giustizia. Non a caso l'Italia è stata più volte condannata nelle sedi internazionali.
È tempo che tutto questo finisca. Tutte le parti politiche devono sentire il dovere di attivarsi in questa direzione, al più presto e al di là dei vari steccati che dividono le fazioni. L'interesse dei cittadini non può che occupare il primo posto.
È sceso in campo in questi giorni lo stesso Presidente della Camera Gianfranco Fini: «È necessaria una riforma che abbia un obiettivo condiviso, ciò che è auspicato da tutte le forze politiche: l'efficienza del sistema giudiziario, al di là delle ricorrenti polemiche e strumentalizzazioni». Spiega il presidente della Camera: «È innegabile che allo stato attuale la durata dei processi precluda la tutela dei diritti dei cittadini. E ciò è davvero inaccettabile. Credo che in quest'ottica sia doveroso, ferma restando l'indipendenza e l'autonomia, riflettere anche sull'assetto della magistratura se davvero si vuole che essa sia all'altezza delle proprie funzioni costituzionali».
Insomma, sembra di capire che Fini, giustamente, immagini una riforma pragmatica, che individuati i problemi e la cause, introduca cambiamenti idonei a risolverli. In questo caso il Presidente della Camera ha rilasciato delle dichiarazioni assolutamente importanti e volte a stemperare il clima incandescente, tipico del dibattito politico nostrano. Infatti spesso ci si dimentica, all'interno delle aule parlamentari, di essere "classe dirigente", con la conseguente rincorsa a chi la spara più grossa. Voi che leggete, mi direte: «oh caro hai scoperto l'acqua calda, non hai visto con quali modalità selezionano o meglio cooptano la cosiddetta classe dirigente?». Lasciamo perdere! Questo può essere il "là" per un articolo futuro.
La giustizia è malata? Sì, lo dicono i numeri.
Nel 2007 sono state pronunciate 144.000 sentenze che hanno dichiarato la prescrizione. Le riparazioni per ingiusta detenzione (custodia cautelare illegittimamente disposta) sono costate allo Stato, nel 2007, 29 milioni di euro. I detenuti in stato di custodia cautelare, cioè in attesa di processo, sono 29.500. Le intercettazioni di comunicazione sono state, nel 2007, 124.845 con un costo di 224 milioni e 300 mila euro. La durata media di un processo è di sei anni. Quelli più complessi durano addirittura decine di anni.
Dati inequivocabili, che dimostrano il non funzionamento del processo sia civile che penale.
I problemi e le cause: lentezza dei processi, principio di non colpevolezza continuamente violato, mancata riforma delle carriere dei magistrati, mancanza di personale dipendente nei tribunali e nelle cancellerie, carceri insufficienti, nonché il susseguirsi di rivalità tra fazioni nel C.S.M. che fanno riferimento ai partiti politici, violando moralmente il principio di indipendenza previsto dall'art. 104 della Costituzione.
Come indicato, una delle questioni cruciali della giustizia in Italia è l'abnorme durata dei processi che determina di per sè una ingiustizia, sia che si venga assolti sia che si venga condannati. La lunghezza inverosimile dei procedimenti giudiziari ha effetti sconcertanti sulla certezza della pena, sui termini della carcerazione preventiva, sull'impossibilità di tutelare il segreto istruttorio.
Il nostro Codice di Procedura Penale prevede troppe norme pseudo garantiste il cui interesse, anche se non voluto, di fatto, è che la sentenza definitiva arrivi il più tardi possibile, meglio se mai, mentre l'interesse dell'innocente (ma spesso anche del colpevole) è esattamente l'opposto.
È troppo il formalismo presente nei nostri codici ed è ciò che determina la marginalizzazione della sostanza, i reali termini del contenzioso. L'eccessiva lunghezza dei processi ha poi pesantissime ricadute sui termini della carcerazione preventiva. Da stigmatizzare, tra l'altro, il fatto che, in questi anni, con la solita legislazione emergenziale si sono accorciati o allungati a dismisura questi termini, col rischio, nel primo caso, di fare uscire dei delinquenti certi, nel secondo di tenere in galera, per anni, degli innocenti. Accorciare la durata del processo significa anche detenzioni preventive brevi. E certezza della pena.
E il segreto istruttorio? Scompare anche a causa della durata interminabile del processo. Eppure tale segreto è fondamentale. Significa, ad esempio, tutela, nella fase delle indagini preliminari, di persone che poi risulteranno del tutto estranee al procedimento.
Altro scandalo: principio di non colpevolezza continuamente violato. Processo prima del processo che, riversato sugli organi di stampa, dimenticando la presunzione di non colpevolezza, realizza una presunzione di colpevolezza che neanche una pronuncia di proscioglimento nel merito riesce a superare. Una barbarie, in nome del diritto di cronaca, dimenticando che questo non può non avere dei limiti e soprattutto non può portare alla soccombenza di altri diritti costituzionalmente garantiti, quali quello della riservatezza, del diritto alla difesa, del diritto a un giusto processo. Presunzione di colpevolezza rinvigorita dalla pubblicazione del materiale accusatorio tra cui le intercettazioni, le quali, in questo modo, vengono utilizzate per finalità avulse all'accertamento processuale, unico motivo che giustifica la limitazione del diritto alla riservatezza.
Come indicato in premessa, in Italia, le intercettazioni ci raccontano numeri da record, il che fa dubitare circa un corretto utilizzo. Due dovrebbero essere i presupposti: gravi indizi di reato e assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini. La realtà giudiziaria ci illustra un uso dello strumento investigativo tutto teso non a proseguire le indagini, ma alla scoperta di nuove notizie criminali. L'investigatore, in pratica, le impiega come una rete da pesca, nella speranza che dall'ascolto emerga qualcosa d'illecito a prescindere dal reato su cui s'indaga. Le intercettazioni, proprio in ragione di ciò, durano mesi o anni anziché pochi giorni come prevede la norma.
Un altro aspetto che investe con esiti sterili la discussione giudiziaria da anni è la separazione delle carriere. Una riforma che conduca a una dipendenza dell'ufficio del pubblico ministero dal potere esecutivo non sarebbe sicuramente auspicabile. La separazione delle carriere non deve avere però necessariamente queste caratteristiche. E in questo caso si deve discutere circa il risultato di una separazione dell'organo dell'accusa dall'organo giudicante. La discussione deve avere come obbiettivo la verifica del se questa riforma conduca a un processo più giusto. La domanda è relativa al se è preferibile un pubblico ministero che provenga dai ranghi della giurisdizione o un pubblico ministero che provenga da un'autonoma carriera. Astrattamente non sarebbe neanche utile discutere. È ovvio che un pubblico ministero formatosi da giudice dovrebbe offrire più garanzie. La verifica pragmatica, l'esperienza dimostra però che il pubblico ministero è allo stato una parte orientata al solo risultato di una condanna, nonostante abbia avuto formazione comune all'organo giudicante.
Difficile allora giudicare negativamente una eventuale separazione delle carriere che rafforzi la terzietà del giudice rispetto alle parti. In fondo e fuor di fronzoli, il principio da salvaguardare è quello della parità, tra accusa e difesa e della terzietà del giudice. È un principio giusto e sacrosanto. L'intervento, quindi, è necessario perché nell'azione penale serve un giudice che sia terzo ed equidistante, cosa che non sempre si realizza. Anche perché, oggi pm e giudici fanno parte dello stesso ordine, lavorano negli stessi uffici, fanno gli stessi concorsi.
Un cenno, inevitabilmente, lo merita anche il C.S.M., se non altro perché essendo l'organo di autogoverno dei magistrati funge un po' da spia del malessere complessivo del sistema: tale organo, la cui composizione andrebbe necessariamente rivista, potrebbe amministrare entrambi, pubblici ministeri e giudici, preservando la loro autonomia e indipendenza dal potere esecutivo. È necessario però strappare la gestione del C.S.M. alle correnti dei magistrati. Il maggior ostacolo alla realizzazione di un sistema meritocratico è stato costituito proprio dal C.S.M.. Le scelte di quest'organo sono state formate in ragione di logiche clientelari-correntizie e non meritocratiche. Il dirigente di un importante ufficio è sino a oggi stato selezionato in base alla corrente di appartenenza e non in ragione delle capacità attitudinale. L'eliminazione delle correnti, la riduzione del loro potere passa attraverso il cambiamento di composizione e del sistema elettorale dell'organo di autogoverno.
In fin dei conti e in conclusione, la riforma della giustizia si farà, e sarà egregia, soltanto quando gli attori protagonisti lasceranno quell'insano desiderio di vendetta e di persecuzione che sembra far da sfondo a ogni proposta di innovazione.