EXCALIBUR 34 - febbraio/marzo 2002
in questo numero

Il nuovo colosso europeo

L'Europa con l'euro sembra in "pole position" per conquistare la futura leadership economica mondiale

di Ernesto Curreli
L'introduzione della moneta europea è stata accolta con soddisfazione a tutti i livelli, in alcuni paesi addirittura con entusiasmo. Anche in Italia, malgrado le difficoltà legate ai cambi e alla ricomparsa dei centesimi, la gente tutto sommato si è adeguata nel giro di qualche giorno.
Non è un risultato di poco conto se solo si considera che il suo corso è forzoso, come del resto per tutte le altre monete. Poteva infatti generare un rifiuto psicologico a livello popolare e borsistico: le novità in questo campo sono sempre accolte con scetticismo e paure irrazionali difficili da controllare. Il caso della crisi finanziaria argentina è quasi da manuale: una orgogliosa ostinazione politica ha voluto ancorare al dollaro la moneta nazionale, con tutti i guai che il cambio elevato ha determinato nelle esportazioni di quel ricco paese, mentre l'introduzione dell'annunciato "argentino" è rientrata per lo scetticismo popolare.
Una modifica così radicale in un sistema monetario non si era mai vista nella storia, perciò appare stupefacente la serenità con la quale 300 milioni di persone hanno vissuto l'evento. In fondo non si tratta che di carta trasformata in banconota, il cui valore è infimo al pari delle leghe metalliche di conio per i pezzi più piccoli. La "zona euro" comprende ben 290 milioni di abitanti, e non ci vuole molta fantasia per comprendere che i "" pronunciati da Regno Unito, Danimarca e Svezia presto si trasformeranno in un deciso assenso. Abbiamo visto in tv decine di Inglesi che giravano per banche e negozi alla ricerca delle banconote europee, così come abbiamo visto gli Svizzeri scendere dal Canton Ticino verso Como e Milano al solo scopo di cambiare in euro il fortissimo franco svizzero, che forse, in conseguenza dell'unificazione monetaria europea, conoscerà una fase di debolezza. Per secoli i nostri vicini hanno fatto la loro fortuna sul cambio con lire, franchi, marchi e scellini.
Solo Aureliano, Diocleziano e Costantino il Grande avevano azzardato una trasformazione monetaria così profonda e universale. Il primo attuò una riforma che investiva tutte le monete di Roma, revocando alle province le concessioni di coniazione dei titoli in oro e argento e lasciando loro soltanto il conio bronzeo, di utilizzazione minuta. Il secondo introdusse riforme radicali nella lega delle monete d'oro e d'argento e creò il "follis", una bellissima moneta di rame che ebbe grande notorietà. Il terzo introdusse il "solidus", che conobbe una straordinaria fortuna giungendo fino alle soglie dell'età moderna grazie ai traffici bizantini. Ma tutti e tre avevano prudentemente agganciato il sistema monetario romano all'oro e all'argento, la cui circolazione da allora rimase saldamente sotto il controllo imperiale. Permisero soltanto che le circa 500 zecche sparse in tutto l'impero alimentassero la circolazione monetaria con le monete più vili. In Sardegna, ancora alla fine del Trecento, i Sardi giudicali preferivano i "bisanti" al fiorino, che pure era apprezzato dagli Arabi e dalle popolazioni del Nord Europa.
L'euro, tuttavia, rappresenta anche la realtà dell'economia europea, e la sua circolazione è destinata a rafforzarla sia per una sorta di unificazione spontanea dei prezzi che non potrà che giovare, sia perché finora è il primo vero strumento unificante che viene vissuto in maniera tangibile a livello popolare. Se il dollaro ha vacillato nei primi giorni, la ragione deriva proprio dalla consapevolezza degli analisti statunitensi che nella storia è entrato veramente un nuovo gigante.
Nata per sostenere le magre risorse europee del carbone, dell'acciaio e dell'agricoltura, oggi l'Europa è un colosso irraggiungibile. Nel 1962 i "sei" avevano a coltura appena 65 milioni di ettari, con una forza lavoro esorbitante pari a 17,5 milioni di agricoltori, indice di un'economia arretrata e povera, appena capace di sfamare 150 milioni di associati. Nello stesso anno gli Stati Uniti disponevano di 400 milioni di ettari coltivati, con appena 4 milioni di addetti che garantivano la sufficienza alimentare per 200 milioni di cittadini.
Oggi le cose si sono ribaltate sia in termini quantitativi, sia in termini politici. Abbiamo raggiunto almeno dal 1970 l'autosufficienza alimentare, destiniamo all'export quantità enormi di prodotti agricoli, mentre una quantità altrettanto grande la destiniamo alla distruzione, che definiamo "controllata" per non offendere il Terzo Mondo esangue.
Gli "associati" non sono più tali, e, conquistato il titolo e i diritti di "cittadini", hanno raggiunto la cifra di 370 milioni, comprendendo quanti finora restano fuori dall'euro ma marciano insieme agli altri per tutto il resto. Che non è davvero poco: il prodotto interno lordo supera il 21% del totale mondiale, contro il 19,6 degli U.S.A. e il 7,7 del Giappone. Il suo commercio estero è già il più grande del mondo con un 18,6% rispetto al 16,6 americano e all'8,2 nipponico.
I dati relativi al P.I.L. pro capite, invece, devono essere letti con spirito critico: quello europeo è pari a 23.643 dollari U.S.A., quello statunitense è di 29.240 dollari, quello giapponese addirittura di 32.350 dollari (fonti O.N.U. e World Bank, 2001). Ma le condizioni di vita per i cittadini medi di quei paesi extraeuropei sono più difficili rispetto a quelli dell'U.E., dove i vecchi regimi socialdemocratici e postfascisti, ereditando lo Stato sociale anteguerra che si era sviluppato in Italia, in Germania, nei paesi scandinavi e nella penisola iberica, hanno creato una rete di assistenza sociale che con termine inglese definiamo del welfare state, ma che altro non è se non la politica della solidarietà nazionale, più consona alla tradizione europea.
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