Europa e Islam: tra laicità e fondamentalismo (II parte)
Approfondimento su due delle civiltà che hanno lasciato una grossa impronta nella storia, le cui divergenze segnano pesantemente anche la nostra epoca
di Ernesto Curreli
I laici europei...
Tutto un mondo di intellettuali in Europa affiancò e sorresse i capi della società civile in un grandioso processo di affrancamento dal potere teocratico. Il secolo XIII aveva visto a un tempo la massima potenza e la caduta del potere temporale del Papa. Ovunque si manifestò una lotta sanguinosa.
Nel 1380 l'Inglese John Wycliffe scriveva il "De Domino Divino" contro le pretese temporali del clero. Pochi decenni prima Cecco d'Ascoli (1322) aveva composto l'"Acerba", un'opera di questioni morali, filosofiche e naturali che si basava sugli scrittori arabi del tempo: finì sul rogo a Firenze nel 1327 per eresia. Pochi anni prima (1316) Pietro d'Abano morì durante il processo intentatogli per eresia e non poté conoscere il giudizio del tribunale ecclesiastico. Ma la sua anima certamente dovette assistere al rogo del suo cadavere. Proprio in quegli anni (1318) il francescano Guglielmo di Occam, della scuola di Oxford, scriveva le "Questioni sottilissime", con le quali sosteneva la divisione tra il potere temporale e quello spirituale. Ovviamente accusato di eresia dal papato di Avignone, trovò rifugio presso Ludovico il Bavaro, a sua volta alle prese con Giovanni XXII e Clemente IV, che pretendevano di sanzionare l'operato dei Principi Elettori germanici. Ludovico, per opporsi al papato, utilizzò le armi ideologiche di Marsilio da Padova, che col suo "Defensor Pacis" - subito tradotto in francese e in tedesco - affermava che le pretese temporali del Papa non erano altro che intollerabili usurpazioni, e di Giovanni Jandum, all'epoca veri giganti della resistenza contro il potere temporale del clero.
All'inizio del XV secolo la lotta era ancora in pieno svolgimento: il ceco Jan Hus morirà sul rogo come eretico, mentre decine di altri intellettuali e religiosi venivano imprigionati o immolati sul rogo dell'Inquisizione.
Ma poi venne il tempo del Rinascimento e della Riforma. Erasmo da Rotterdam col suo "Miles Christianus" lanciò un inno allo spirito laico e alla libertà d'insegnamento. Nel 1550 i suoi "Adagia" e "La prima educazione liberale del fanciullo" diedero un colpo potente al monopolio religioso sull'insegnamento. Martin Lutero nel 1517 affisse sulla porta della cattedrale di Wittenberg le famosissime 95 Tesi, mentre Giovanni Calvino (1509-1564) abolì in tutta l'Europa centrale le gerarchie ecclesiastiche e la struttura temporale della Chiesa di Roma.
La società non rimase a guardare. Se Federico II di Svevia in Italia fu il capostipite della reazione statale contro il papato, le borghesie europee non rimasero inerti. Per difendere Filippo IV il Bello dalle pretese di supremazia temporale di Bonifacio VIII, i Francesi convocarono i primi Stati Generali (1302). Fece seguito la Prammatica Sanzione di Carlo VII nel 1438, mentre più tardi Enrico VIII d'Inghilterra con l'Atto di Supremazia (1540) si liberò dal pericoloso controllo della Chiesa. In Danimarca le cose non andarono diversamente: nel 1536 i vescovi danesi furono incarcerati e creata la Chiesa danese. Il re Christian III, con l'appoggio incondizionato del popolo, ne diventò il primo capo. «Kings and Vikings» si diceva di loro, quasi a sanzionare la supremazia della società civile sul potere religioso.
... e quelli islamici.
Nel mondo islamico, a parte la Turchia e l'Egitto, nulla di tutto ciò era potuto accadere a causa della resistenza congiunta delle élite religiose e delle oligarchie politiche. L'Impero Ottomano fu sempre laico, sebbene avesse portato l'Islam dove gli Arabi non erano mai penetrati: Albania, Croazia, Turkestan, Romania, Transilvania e Bulgaria vennero in parte islamizzate. Ma l'apparato religioso degli ulama fu sempre tenuto sotto il controllo dello Stato. Le comunità non musulmane erano designate con nomi generici ma significativi: "dhimmi" (popoli protetti), "ta'ifa" (gruppo) o "jamat" (comunità religiosa) lasciavano intendere una rispettosa concezione popolare dei "non islamici". Ira M. Lapidus, ricercatore storico della University of California, Berkeley, afferma che «il potere del sultano derivava dal suo ruolo di esecutore della legge musulmana, anche se la distinzione fra governanti e governati non coincideva con quella fra musulmani e non musulmani, entrambi presenti nelle élite dominanti e fra le popolazioni sottoposte» ("A History of Islamic Societies"). Insomma, uno Stato laico in nuce.
Molto più tardi Selim III (1789-1807) adottò il primo programma di riforme che prevedeva la formazione di un esercito moderno, l'aumento delle tasse e l'istruzione scolastica, ma venne rovesciato nel 1807 da una rivolta dei giannizzeri fomentata proprio dagli ulama. Solo con Mahmud II (1808-1839) le riforme presero il sopravvento sulla vecchia organizzazione pubblica, dove ancora gli ulama rivendicavano un residuo di potere: nel 1826 la resistenza dei conservatori fu travolta, il corpo dei giannizzeri definitivamente sciolto, i possessi feudali parzialmente aboliti. Al clero furono sottratti finalmente i grandi possedimenti terrieri, i tribunali e le scuole coraniche, che passarono sotto il pieno controllo statale.
Ma la mala pianta non era certo estirpata e il periodo dei Giovani Ottomani - da noi meglio conosciuti, quasi con disprezzo, sotto la denominazione di "Giovani Turchi" - intorno agli anni '60 e '70 dell'Ottocento, vide un sanguinoso confronto di mentalità: nel 1876 imposero al Sultano la costituzione del primo governo rappresentativo turco, una costituzione che limitava i suoi poteri, un decentramento della amministrazione pubblica e l'uguaglianza per tutti i gruppi religiosi. Gli intellettuali dell'organizzazione dei Giovani Ottomani erano di fatto, se non di nome, dei musulmani modernisti, in quanto ritenevano che l'Islam fosse compatibile con l'organizzazione moderna della società. Non sbagliavano, se solo si pensa a cosa sia oggi la moderna Turchia.
Ma l'intellighenzia turca doveva aspettare la rivoluzione "vera", quella di Ziya Gok e di Mustafa Kemal. Gok, già alla fine dell'Ottocento, aveva teorizzato che l'uguaglianza delle donne era essenziale allo sviluppo della moderna società turca, spingendo per l'uguaglianza nell'istruzione, nell'occupazione e nella vita familiare. Se il nazionalismo laico del XIX secolo aveva fatto della questione femminile, ben prima dei movimenti femministi europei, un punto fondamentale del progresso civile, con Mustafa Kemal, più noto come Ataturk - il "Padre della Patria", al potere dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino al 1938, anno della sua morte, la Turchia entrò a pieno titolo nel consesso delle nazioni più progredite. Il fatto che noi occidentali non ce ne siamo accorti è solo colpa nostra e nostra noncuranza. Ma la Turchia moderna è un Paese straordinario, occidentale a pieno titolo, fortemente progressista, attento ai valori della democrazia e della laicità. Nel 1934 le donne videro riconosciuto il loro diritto al voto (in Italia lo avrebbero avuto soltanto nel 1946) e già nel 1935 alcune di loro sedettero nel Parlamento.
La rivoluzione kemalista negli anni '20 e '30 introdusse, sul modello fascista dell'I.R.I., l'economia mista, industrializzando il Paese a marce forzate. Gli ulama e la nobiltà furono definitivamente esclusi dal potere politico, mentre l'obiettivo della modernizzazione culturale fu portato avanti con forza. In questa prima fase, a dimostrazione della duttilità e della spregiudicatezza ideologico-culturale di Kemal e dei suoi, lo Stato introdusse anche un sistema di pianificazione di stile sovietico, con il varo di un primo piano quinquennale (1929-1933) teso a incentivare le industrie che producevano beni di consumo destinati a sostituire quelli di importazione.
Ma Mustafa Kemal la vera rivoluzione la realizzò sul piano culturale. Inserì le masse popolari nel contesto ideologico del regime repubblicano, facendo in modo di allontanare il popolo dall'Islam, accostandolo invece a uno stile di vita occidentale e laico. Con questo spirito soppresse le tradizionali istituzioni islamiche: abolì il sultanato nel 1923, il califfato nel 1924. Negli stessi anni gli ulama furono assoggettati al controllo del nuovo Ministero degli Affari religiosi; nel 1927 Kemal vietò l'uso del "fez"; nel 1928 venne introdotta la scrittura latina al posto di quella araba, mentre nel 1935 i Turchi furono obbligati ad assumere un cognome sul modello occidentale. Alle donne fu vietato di coprirsi il volto, mentre un'importantissima riforma del diritto familiare abolì la poligamia, sancì una sostanziale parità dei sessi in materia di divorzio, punì severamente la segregazione delle donne in casa e nei luoghi pubblici.
A completamento di questa rivoluzione, che potremmo chiamare "anticlericale" senza offendere il sentimento religioso di alcuno, almeno allo stesso modo di come potremmo chiamare "antipapale" la rivoluzione borghese europea del tardo Medio Evo, Ataturk creò la prima banca moderna, quella che, ieri come oggi, i religiosi islamici deprecano profondamente, così come secoli fa facevano i loro colleghi cristiani. Nel 1929 nasceva infatti la Banca Sumer per finanziare le industrie tessili, saccarifere, della carta e del vetro. Bisogna sapere che per l'Islam è vietato dare danaro in prestito a interesse. Perciò fino a ieri in tutto l'Oriente islamico non esistevano banche commerciali. Se proprio bisognava prestare del denaro a qualcuno che lo meritava o che dimostrava una certa solidità patrimoniale, si faceva ricorso a un ipocrita stratagemma: chi prestava danaro non voleva indietro il capitale maggiorato di un interesse, ma pretendeva una quota di partecipazione (una o più azioni, diremmo noi) nell'impresa, diventando così padrone in parte di un'impresa nella quale l'uno lavora e l'altro partecipa agli utili senza far nulla. Oggi la neonata Banca Islamica, che opera anche a Roma per un pubblico islamico, pretende di svolgere un ruolo "etico" perché opera in tal modo. La cosa buffa è che vi sono degli occidentali che prestano attenzione a una tale sciocchezza e che propagandano la validità di una simile mistificazione, come è accaduto con alcuni sindacalisti della C.I.S.L. che hanno varato la cosiddetta "Banca Etica" sul modello della Banca Islamica, e come è accaduto ad alcuni ingenui esponenti del mondo di destra, tra i quali alcuni siedono in Parlamento.
Oggi la Turchia è attanagliata da una profonda crisi finanziaria dovuta a circostanze economiche che qui sarebbe troppo lungo riepilogare. Ma non ho alcun dubbio che saprà riprendersi, e comunque resta un paese libero, dove la democrazia è difesa da tutti e dove il fondamentalismo religioso costituisce un'infima minoranza. Fa parte della N.A.T.O. e, pur professandosi paese islamico, cede il suo spazio aereo all'aviazione di Israele, che con i jet militari non saprebbe dove andare a esercitarsi, avendo un territorio così stretto che dopo il decollo lo spazio aereo è già arabo.
L'Egitto è un altro esempio di come religione e interesse pubblico non sempre coincidano, malgrado ogni pretesa contraria delle teocrazie iraniane e afghane. I principali esponenti del modernismo egiziano del XIX secolo furono Giamal al-Din al-Afghani (1839-1897) e il suo discepolo Muhammad Abduh (1849-1905). Al-Afghani era un Persiano sciita che si spacciò per Afghano al fine di assicurarsi le simpatie della comunità orientale sunnita. Profondamente versato nella filosofia musulmana, viaggiò in tutto l'Oriente e in Europa per affermare le sue idee moderniste, dedicando la sua vita alla missione di convincere i governanti a modernizzare l'Islam. Nella sua concezione, l'Islam costituiva per sua natura il fondamento di una società moderna, poiché era la religione della ragione, del libero uso dell'intelletto e della tolleranza. Anche lui non sbagliava, perché l'Islam nei secoli aveva dimostrato un'estrema tolleranza verso il cristianesimo, ben più di quanto questo non avesse dimostrato verso l'Islam. E il libero uso dell'intelletto aveva permesso agli Arabi di dare al mondo gli strumenti moderni della scienza astronomica, della geografia, della matematica, dell'idraulica, facendo sopravvivere persino i testi classici occidentali. Per lui l'Islam era anche una religione che favoriva il dinamismo sociale e il progresso delle questioni terrene. L'Islam dei suoi tempi - affermava - era il prodotto delle oligarchie e delle teocrazie corrotte e, se non atee, perlomeno agnostiche. Era essenziale modernizzare l'Islam, ma il modernismo senza l'Islam era per lui inconcepibile. Il modernismo di al-Afghani, insomma, era affine se non uguale a quello dei Giovani Ottomani e della contemporanea scuola di Aligarh nell'India musulmana.
Il modernismo islamico egiziano prese una piega differente con Muhammad Abduh, mufti e massima autorità in fatto di legge islamica (1905). Anche lui era interessato a difendere i popoli musulmani dagli Europei, ma riteneva che la sostanza del problema fosse di natura religiosa, non politica: nell'Islam egli trovava dei criteri generali che dovevano essere reinterpretati in ogni epoca, al fine di accompagnare lo sviluppo della società civile. Cosa che non sempre veniva accettata dal fanatismo teologico. Le vicende moderne dell'Egitto, con gli sforzi di modernizzazione di Nasser, Sadat e Mubarak, sono fin troppo recenti per meritare di essere qui ricordate.
Ognuno sa, però, che ancora oggi il peggior nemico del processo di modernizzazione degli Stati islamici è frenato dalle élite religiose, che trovano alleati nelle ristrette classi oligarchiche dominanti. E anche dove lo Stato sembra aver assunto una connotazione laica (Iraq, Siria, Algeria), il sostegno degli ulama ai regimi dispotici è fin troppo evidente. Insomma, il mondo orientale può essere legittimamente considerato ancora in una fase di dolorosa transizione verso la laicità e il libero pensiero, proprio come lo fu l'Europa al volgere del Medio Evo.