EXCALIBUR 31 - novembre 2001
in questo numero

... Noi invece possiamo vincere

Passato il tempo dell'"anti" o del "filoamericanismo", bisogna prepararsi a lottare contro il nuovo nemico, l'Islam

di Isabella Luconi
Così come era avvenuto alla fine della Prima Guerra Mondiale, anche la Seconda si è conclusa lasciando l'Europa in una situazione di vero e proprio disastro. Unica eccezione gli Stati Uniti: uscivano dal conflitto praticamente indenni, con un apparato economico in piena espansione e pronti a imporre la loro leadership sul resto del mondo.
Il 5 giugno 1947, il generale George C. Marshall indicò, in un discorso, quali sarebbero state le linee generali attraverso le quali si sarebbero concretizzati gli aiuti all'Europa. Gli effetti del piano Marshall furono imponenti e sancirono l'inevitabile leadership americana.
Bisogna probabilmente ritornare a quegli anni, al clima di clandestinità vissuto dagli ex appartenenti alla Repubblica di Salò, alle città sventrate e bombardate dagli Americani e alle migliaia di civili morti a causa di quei bombardamenti, per comprendere come si radicò in maniera viscerale quell'"antiamericanismo" che infiammava i cuori di una certa destra.
Come ormai a molti piace dire e riconoscere, la storia viene scritta dai vincitori, e ai vinti non rimane che chiudersi nella propria comunità, trovando nell'isolamento ideologico e culturale la forza per esistere e per non soccombere. Fu in questo isolamento che maturò un "monoidealismo" antiamericano che nessuno spazio lasciava a un approfondimento critico, ma che servì come vincolo e legame per un impegno "metapolitico". Questo vincolo fu talmente forte e talmente identificativo da trasmettersi intatto alle successive generazioni, che, pur non avendo vissuto sulla propria pelle l'"antiamericanismo" bellico, si cementò nuovamente intorno a questo "monoidealismo".
Se è vero come è vero che la sinistra non è riuscita a rielaborare la caduta del regime comunista, credo sia altrettanto vero che la destra non ha saputo ridefinire il suo ruolo né riconvertire le sue radici attualizzandole a uno scenario mondiale ormai profondamente mutato. Il grande dibattito sulla globalizzazione avrebbe potuto rappresentare l'occasione per questa ridefinizione, ma si è preferito rimanere su una posizione strumentale di interventismo "forcaiolo", che incentrando l'attenzione sull'azione, permette di non interrogarsi sui propri dogmi culturali.
La storia insegna però che non si può sfuggire alle proprie responsabilità, e viene, prima o poi, il tempo in cui è necessario liberarsi dalle proprie pulsioni per ridefinire una realtà culturale che si sviluppi sul terreno delle idee e non dei sentimenti. E il tempo è arrivato l'11 settembre 2001. Un tempo segnato da sangue e dolore, e dove l'America ha mostrato al mondo un volto che proprio noi di destra pensavamo non possedesse: è un popolo unito, forte, con un comune sentire che ha cementato le diversità delle razze per sintetizzarsi in una sola, quella americana, una comunità unica, fondata su quei valori che fanno di un popolo una Nazione; quei valori che noi volevamo solo come nostro appannaggio e nostro fondamento, legati a quella idea fascista di una grande Italia fatta da grandi Italiani. Noi non ci siamo riusciti, loro sì!
Credo che sia giunto il momento per la destra di interiorizzare i suoi dubbi, interrogandosi sul proprio passato, per esprimere quei valori fondanti del proprio essere senza il timore di fallire.
Non è più il tempo per essere "antiamericani" o "filoamericani", dobbiamo avere il coraggio di essere Italiani, dobbiamo esprimere in maniera chiara e forte cosa intende la destra per Nazione, dobbiamo avere il coraggio di dire che non si può permettere a un'orda di barbari di imporre le proprie regole, dobbiamo chiedere con forza e chiarezza al nostro alleato di governo di intervenire senza equivoci, senza compromessi, dobbiamo qualificare la nostra azione politica, non in difesa dell'America ma in difesa della nostra cultura, del nostro mondo, della nostra civiltà.
È nostro e solo nostro il concetto di libertà inteso come riconoscimento della diversità, e noi siamo diversi dai musulmani, dagli islamici, dalla loro cultura barbara che svilisce l'uomo nella sua essenza per farne solo un automa obbediente alle leggi del Corano; ed è nel momento in cui è "l'altro" che non riconosce la tua diversità che siamo chiamati a difendere la nostra libertà. E c'è solo un modo per difenderla: con la forza!
Il dialogo, l'omologazione, il culto dell'eguale, le marce per la pace lasciamole alla sinistra, la storia ha già dimostrato il suo fallimento. Noi invece possiamo vincere.
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