Europa e Islam: tra laicità e fondamentalismo (I parte)
Approfondimento su due delle civiltà che hanno lasciato una grossa impronta nella storia, le cui divergenze segnano pesantemente anche la nostra epoca
di Ernesto Curreli
La sinistra europea, dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre negli U.S.A., cerca di condizionare l'opinione pubblica introducendo un'infinità di "distinguo" tanto inopportuni quanto fuorvianti. In Italia, con le quotidiane trasmissioni rosse di Santoro, Mannoia e "Unomattina", sembra ci sia riuscita, a giudicare dall'atteggiamento della gente comune, che in maniera sempre più netta vorrebbe che gli U.S.A. incassassero il colpo senza reagire poiché non possono fornire la "prova diabolica" che gli si richiede, ossia la prova "repertale" contro Osama Bin Laden. Dei terroristi kamikaze, evidentemente, non sono bastate le biografie, le fotografie, i percorsi professionali, i loro collegamenti con le organizzazioni fondamentaliste per dimostrare quale sia la fonte e la matrice.
Le sinistre hanno introdotto nel dibattito anche una polemica molto subdola, che riguarda il posizionamento dell'Occidente rispetto al mondo islamico. Il benessere degli ingenui Stati occidentali è presentato come una colpa rispetto alle miserie e alle storture istituzionali del Terzo Mondo, del quale la componente islamica è parte non trascurabile. Insomma, noi siamo meritevoli dei più efferati attentati perché abbiamo un certo tenore di vita mentre loro, i diseredati del mondo, fanno bene a punirci perché li priviamo delle loro risorse.
Non è che una nuova versione della vecchia polemica anticolonialista, che ieri aveva dei fondamenti ideologici economici e che oggi, smantellati gli imperi coloniali occidentali, appare molto debole. Perciò la sinistra, con abilità, introduce un nuovo elemento polemico, che investe la specificità religiosa e culturale del Terzo Mondo, minacciata dall'aggressività della cultura occidentale. Basta che un politico come Berlusconi sbagli una parola nel contesto di un più ampio discorso per scatenare il fronte di quanti oggi pontificano sulla necessità di salvaguardare le religioni, mentre in passato predicavano in tutto il globo l'ateismo di stato e la laicità delle istituzioni pubbliche.
Il dibattito, intanto, dovrebbe essere riportato a più giuste dimensioni, evitando di confondere, per quanto è possibile, la religione con le istituzioni e i sistemi di governo politici e finanziari. Qui si tratta, infatti, di non permettere che rimangano impuniti atti terroristici compiuti da fanatici che agiscono al riparo di Stati e di istituzioni che negano ogni collegamento ma che li allevano in casa e forniscono loro ogni tipo di supporto logistico e finanziario. Si tratta anche di trovare il coraggio di analizzare spassionatamente il "carattere" di una religione, l'Islam, cui nessuno può contestare il diritto di esistere e fare proselitismo, ma che comunque ognuno di noi può legittimamente studiare e criticare con gli strumenti della sociologia e dell'economia. Allo steso modo di come fanno gli islamici o gli Ebrei quando parlano della religione cattolica o di quella induista.
Possiamo parlare quanto vogliamo della libertà religiosa, ma rimane il fatto che l'Islam fondamentalista è più forte laddove più evidente è la precarietà sociale e più macroscopico il divario economico tra le classi oligarchiche e il popolo. Meglio ancora, l'Islam dell'applicazione "integrale" attecchisce e controlla più saldamente le masse ignoranti e affamate proprio nei Paesi in cui il potere è in mano alle borghesie eredi dei bey, dei califfi e degli antichi capi tribù, che perpetuano le posizioni di privilegio proprio grazie al consenso degli ulama islamici.
Non c'è dubbio, quindi, che il "carattere" della religione accompagni lo sviluppo delle nazioni, in Oriente come in Occidente, ma è compito delle classi dirigenti affrancarle dai pregiudizi e dalle superstizioni che questa porta con sé e che possono portare alla paralisi sociale. Per fare un esempio, non si spiegherebbe perché Hernan Cortés con meno di duecento hidalgos spagnoli nel 1519 riuscì a conquistare un Impero che vantava più di 300 mila guerrieri, e perché Francisco Pizarro in Perù nel 1532 riuscì a fare altrettanto con meno di 150 soldati. Poterono farlo, semplicemente, perché i capi di quegli Imperi, Montezuma II per quello Atzeco e Atahualpa per quello degli Incas, erano convinti di trovarsi di fronte al Dio vagheggiato dalla loro superstizione religiosa.
Allora, se proprio è necessario parlare di "scontro di civiltà", sarebbe più giusto anche per noi di destra riportare il confronto in ambito più terreno, indagando invece sui meccanismi di potere che si sono formati nei secoli in Europa, Nord Africa e in Oriente, per evidenziare che l'influsso della religione è importante, ma non fondamentale se la società civile riesce a reagire alle pretese della teocrazia, stemperando così la pretestuosa polemica della sinistra.
La storia delle lotte per l'affermazione della laicità nello Stato.
I casi della Turchia e dell'Egitto moderni, ad esempio, sono emblematici di questo processo secolare che vede la religione contrapporsi a ogni tentativo di avanzamento. Non è solo l'Islam che determina una commistione totale tra la sfera pubblica e privata, tra il mondo terreno e quello spirituale, tra le esigenze dell'anima e quelle del corpo. Del resto, almeno fino a tutto il 1.100 la civiltà islamica aveva dimostrato di essere molto più avanzata di quella europea. Non c'era confronto alcuno nel volume degli scambi commerciali interni, nell'urbanistica, nello sviluppo delle scienze. Ma la casta sacerdotale poteva accompagnare lo sviluppo sociale fino a quando il mondo rimaneva legato alla terra e il ritmo della vita, nelle città come nelle campagne, era scandito dalle campane della chiesa o dal richiamo dell'imam della moschea. Poi qualcosa accadde e il mondo islamico sembrò rallentare la sua evoluzione, mentre l'Europa entrava in un'altra epoca.
Qualcosa di molto simile sta avvenendo oggi con la globalizzazione dell'economia, con la mondializzazione dei problemi, con l'emergere sempre più forte dei sistemi democratici, col realizzarsi delle società multietniche, della maggior comprensione e tolleranza delle culture diverse dalle nostre.
L'Occidente è ben consapevole, anche se da tempo ha rimosso il problema, che furono necessari secoli di lotte per affermare la laicità dello Stato rispetto alla religione e al papato, che pretendeva di dominare la vita pubblica in ogni suo aspetto. Henri Pirenne, il grande storico belga della prima metà del XX secolo, nella sua "Storia dell'Europa", per primo mise in evidenza la straordinaria cesura epocale che si determinò con la nascita delle borghesie mercantili e delle prime forme assembleari-parlamentari, le quali, se da un lato affiancarono lo sforzo dei sovrani per piegare le pretese del clero e dei feudatari, gettando perciò le basi dei futuri Stati nazionali, dall'altra introdussero il principio della laicità delle funzioni pubbliche.
Prima di lui ci aveva provato Edward Gibbon, autore del monumentale "Declino e caduta dell'Impero Romano", che aveva individuato nella vittoria dei cristiani le cause della caduta di Roma, attirandosi come Pirenne le ire dei clericali. Gibbon parlava dei primi secoli dell'era cristiana e sbagliava a individuare le cause del tracollo dello Stato romano in un solo motivo, quello religioso, perché non possedeva gli strumenti per analizzare anche le cause militari: esso fu dovuto al passaggio da una difesa elastica e in profondità a una strategia di difesa statica con l'istituzione dei corpi "limitanei" di Costantino il Grande, come più tardi avrebbero dimostrato alcuni storici anglosassoni.
Pirenne parlava di cose a noi più vicine, e dopo di lui la storiografia europea avrebbe delineato un nuovo, grande affresco storico, dove la borghesia, i mercanti, il capitalismo e l'affermarsi della laicità avrebbero trovato un più chiaro rilievo. Emergeva la lotta dei baroni inglesi contro Giovanni Senza Terra, al quale strapparono la Magna Charta (1214), e il loro diritto a riunirsi per affiancarlo nel governo, l'affermarsi delle "Cortes" catalane e castigliane, dei "Fueros" di Navarra e dei Paesi Baschi, il prepotente affacciarsi sulla scena inglese del Parlamento, dopo che i baroni avevano strappato a Giovanni Senza Terra la "Magna Charta". E poi il sorgere del primo Parlamento a Parigi, da cui sarebbero nati gli Stati Generali, l'evolversi delle istituzioni pubbliche con la Lega Anseatica e le "Gilde" in tutto il Nord Europa, lo straordinario dinamismo dei "Comuni" italiani, i primi Consigli della Corona negli Stati scandinavi appena usciti dalla barbarie vichinga. E, aggiungo io, l'apparire straordinario in Sardegna, tra le prime ad affacciarsi sulla scena europea della storia degli organismi collettivi di partecipazione popolare laica, delle "Corone de Logu" in tutte le Curatorie (ripartizioni territoriali del "Rennu" giudicale) e della "Corona de Tottu su Logu" (Consiglio generale della Corona) nell'ordinamento giudicale, a testimonianza della maturità raggiunta dalla tutta la società occidentale, anche nei posti più remoti, nella gestione della "res publica".
Anche l'Est non rimaneva indifferente al processo di laicizzazione della società. Nel 1364, Casimiro III il Grande, vero creatore dello Stato polacco, codificava gli Statuti della Polonia e fondava la prima Università a Cracovia sul modello di quelle italiane.
A tutto ciò si affiancava contemporaneamente la nascita del capitalismo mercantile, motore altrettanto potente di sviluppo e di progresso sociale. A Bruges nasceva la prima Borsa, alla quale presto avrebbero fatto concorrenza quelle di Londra e Amsterdam.
Pirenne, che si confrontava con un ambiente accademico intriso di simpatie marxiste, lamentava che la nascita del capitalismo venisse fatta risalire acriticamente dai suoi colleghi alla fine del XVIII secolo, secondo la lezione di Marx, mentre aveva sotto gli occhi l'evolversi di una società che aveva rifiutato da secoli l'insegnamento cristiano contro il prestito di denaro e superato l'economia di puro sostentamento predicata dai grandi Ordini religiosi medievali.