La prima edizione del volume su "I Sardi a Salò" del 2009 (cfr. Angelo Abis, "L'ultima frontiera dell'onore - I Sardi a Salò", Ed. Doramarkus, Sassari 2009) fu il tentativo pionieristico di aprire un filone inedito della storia dei Sardi e della Sardegna.
L'opera pertanto risentì molto dell'esigenza di "salvare" in qualche modo fatti, idee e personaggi traendoli dalla cronaca, dal racconto orale o dal sentito dire per collocarli in una dimensione se non proprio storica, quanto meno prestorica nel senso che potevano costituire la base per ulteriori approfondimenti, non solo aggiungendo nuovi e interessanti personaggi, ma anche andando più a fondo sulle motivazioni e sul carattere peculiare che spinse tanti Sardi a riconoscersi nella Rsi.
Di qui l'esigenza di una seconda edizione del volume.
Perché parlare di nuovo dei Sardi nella Rsi?
Innanzitutto perché "marcarono" la loro presenza a Salò in maniera del tutto originale e, per certi versi, anche opposta rispetto a quanto espresso da altre comunità regionali ben più consistenti e potenti quale, ad esempio, quella toscana. Per comprendere il comportamento dei Sardi a Salò, occorre considerare che la società isolana è stata toccata solo marginalmente da quei fatti eclatanti che negli anni 1919-'22 hanno determinato il sorgere e l'affermarsi del fascismo.
In Sardegna, in quegli anni, sono molto tenui miti quali "la vittoria mutilata" e "il pericolo bolscevico". Le conseguenze furono che nell'Isola prese il potere quella borghesia che aveva fatto la guerra e che aveva giocato la carta politica di un riscatto economico e sociale del tutto interclassista, venato di un nazionalismo etnico dialetticamente contrapposto allo stato nazionale.
Detta borghesia diede vita prima al Movimento di Combattenti, poi al Partito Sardo d'Azione e infine, arrivando a un onorevole compromesso con Mussolini, creando il cosiddetto "sardo-fascismo", ovvero mettendo la camicia nera a una serie di istanze, progetti e valori peculiari del sardismo. (cfr. Luigi Nieddu, "Dal combattentismo al fascismo in Sardegna", Ed. Vangelista, Milano 1979).
Cresciuti in un clima in cui i valori della "sardità" e del fascismo erano un tutt'uno, era inevitabile che una fetta non trascurabile di Sardi, dopo la catastrofe dell'8 settembre, si ritrovò ad aderire alla Rsi. Adesione che, almeno nei suoi elementi più qualificati, non fu mai acritica o scontata o peggio rinunciataria rispetto ai valori o alle idee in cui si credeva.
Se consideriamo i militari, ci colpisce il fatto che Sardi come il Generale Gioacchino Solinas e il Capitano Achille Manso furono tra i pochissimi elementi del Regio Esercito a contrastare con successo, se non a sconfiggere, i Tedeschi. Ma sia Solinas che Manso, unitamente ad altri quali il Generale Princivalle e il Colonnello Porcu, preferirono farsi destituire piuttosto che sottostare alle invadenze dei Tedeschi.
Tra gli intellettuali e i politici troviamo Edgardo Sulis, che, pur essendo un pupillo di Mussolini, si fa due anni di confino per aver insultato il podestà del suo paese e, a Salò, costituisce un nuovo partito, antitetico a quello fascista "repubblicano e rivoluzionario". C'è poi Stanis Ruinas, fascistissimo ma sempre alle prese con radiazioni, espulsioni e censure da parte del regime, perché parla e scrive senza peli sulla lingua delle magagne dei gerarchi. Nella Rsi, accarezza il sogno impossibile di unire le anime popolari e rivoluzionarie sia della resistenza che del fascismo. Il pittore Giuseppe Biasi paga invece la sua adesione a Salò con la vita. Lui che durante il ventennio passava per essere "afascista", se non antifascista. In realtà era smaccatamente filotedesco e antisemita.
Non è certo un caso che quasi tutti i Sardi che ebbero un qualche ruolo nella Rsi, da Barracu a Sulis, da Ugo Manunta a Stanis Ruinas, da Luigi Contu a Vincenzo Lai, si ritrovarono in quel vasto schieramento politico e culturale che alla critica più che radicale al cosiddetto "fascismo-regime", autoritario, conservatore e illiberale, univa la richiesta della libertà di stampa, del pluralismo partitico, l'indizione di una costituente e la socializzazione dell'economia. Come non è certo un caso se Barracu poteva dire alla radio, parlando ai Sardi: «
La Sardegna avrà, in base al nuovo ordinamento, l'autonomia necessaria che la sua configurazione, la sua posizione geografica e il suo passato, le hanno dato il diritto di sognare e di avere» (cfr. Francesco Maria Barracu, "Alla gente di Sardegna", pag. 6, in "Tre discorsi", Ed. Erre, Milano 1944).
A Salò il segno di riconoscimento dei Sardi era la lingua sarda. Questo faceva premio su qualunque altro fattore e imponeva una solidarietà e quasi una parentela che andava ben oltre le differenze politiche o ideologiche. Non erano rari i casi dove Sardi fascisti avessero buoni rapporti o frequentassero Sardi partigiani o antifascisti. Questo perché al Sardo era ostico il concetto di guerra civile. Non essendo la Sardegna neppure sfiorata dalla rivoluzione francese e dalla seguente avventura napoleonica, non si concepiva come gli uomini potessero odiare e uccidere in nome di valori astratti quali quelli della politica o delle ideologie.
Da qui anche una valutazione più pragmatica e realista del fenomeno della resistenza, con la quale si riteneva poter trattare e trovare un qualche accordo o un modus vivendi. Questa mentalità prevale anche nella memorialistica del dopoguerra, vedi il libro "Pioggia sulla repubblica" di Stanis Ruinas (Ed. Corso, Roma 1946) o "La caduta degli angeli" di Ugo Manunta (Ed. Azienda E. Italiana, Roma 1947).
Gli anni 1943-1946 sono considerati per la Sardegna anni se non proprio felici, quantomeno quasi tranquilli, stante le tragedie e gli orrori che nello stesso periodo colpirono quasi tutte le regioni italiane.
Cessate le apprensioni per il temuto sbarco alleato nell'Isola, la caduta di Mussolini è accolta dalla popolazione con una certa apatia (solo a Guspini si registra una manifestazione di giubilo, dispersa dai paracadutisti della Nembo a colpi di cinturone, notizia datami da mio padre, che nel 1946 era ufficiale sanitario nel Comune di Guspini), senza particolari entusiasmi.
Il fatto poi che i Tedeschi, i quali tra l'altro erano ben visti nei centri ove erano stanziati, si fossero ritirati in Corsica in buon ordine, dando luogo solo a qualche scaramuccia (scontri di una qualche rilevanza si ebbero solo nei pressi di Oristano, per il possesso del ponte sul fiume Tirso e nell'arcipelago de La Maddalena, cfr. Vittorio Scano, "L'8 settembre tra i nuraghi" in "Almanacco di Cagliari", 1993), diede l'impressione che la Sardegna fosse uscita dal secondo conflitto mondiale già alla fine di settembre del 1943.
In realtà le cose non stavano esattamente così. Se è vero che, a partire da quella data, malgrado la disastrosa situazione economica e sociale, la tranquillità era ritornata per i residenti nell'Isola, è altrettanto vero che per circa 60-70 mila Sardi sotto le armi le cose non erano messe altrettanto bene: una parte si trovava rinchiusa nei campi di concentramento alleati e russi sparsi nei quattro continenti, in condizioni non certo soddisfacenti, specie per quelli che si trovavano nei campi russi e nei "criminal fascist camps", riservati dopo l'8 settembre ai cosiddetti "non collaboratori". Gran parte di loro rientrerà in Sardegna nel 1946, ma alcuni addirittura nel 1950.
Nelle tragiche giornate successive all'armistizio, il resto dei militari si ritrovò nella penisola e negli stati di mezza Europa, in particolare nei Balcani. Morti a parte, chi non finì nei lager tedeschi si trovò nella tragica necessità di darsi alla macchia o di aderire al neonato stato repubblicano di Mussolini.
Con moltissima approssimazione possiamo calcolare che circa 10 mila Sardi si schierarono con la Rsi. La cifra di 10 mila unità è il risultato di una interpolazione statistica che parte da alcuni dati certi, pur con un certo margine di approssimazione: i soldati catturati dai Tedeschi dopo l'8 settembre furono oltre 600 mila, di cui almeno 20 mila Sardi; sbandati nei territori occupati dai Tedeschi 1.000.000-1.300.000 di cui 40-50 mila Sardi. Di questi circa 100.000 aderiscono alla Rsi, 140-180 mila si sarebbero arruolati direttamente nella Wehrmacht, provenienti perlopiù dalle 250 mila camicie nere nei reparti della milizia. Infine tra gli internati in Germania 13 mila si arruolarono nelle Ss italiane e altrettanti nelle costituenti divisioni dell'esercito di Graziani (cfr. Giorgio Bocca, "La Repubblica di Mussolini", pagg. 61, 62 e 64, Ed. Laterza, Bari 1977, Renzo De Felice, "Mussolini l'alleato", pag. 156, Ed. Einaudi, Torino 1997 e Giampaolo Pansa, "L'esercito di Salò", pag. 23, Ed. Mondadori, Milano 1970).
A questi possiamo aggiungere qualche migliaio di civili che si trovavano al Nord nell'apparato dello stato a collaborare col governo repubblicano. Non vi è dubbio, quindi, che da un punto di vista quantitativo la partecipazione dei Sardi al fascismo repubblicano fu rilevante. Ma ciò che desta meraviglia è la pattuglia non esigua di giornalisti, di intellettuali e di artisti - fra cui anche un regista cinematografico (cfr. Ernesto Guido Laura, "L'immagine bugiarda - Mass-media e spettacolo nella Repubblica di Salò (1943-1945)", a cura dell'Ancci, pagg. 453-473, Roma 1986) - tutti sardi, che animò la breve, ma intensa, attività culturale di Salò. E che fra costoro ci fosse il più grande musicista e il più grande pittore del secolo è altrettanto singolare e un unicum tutto sardo.
È difficile quantificare l'apporto dei militari sardi all'esercito della Repubblica di Salò, come è difficile calcolare il numero dei Sardi che militarono nella resistenza, valutati in circa 7 mila, di cui però si conoscono i caduti: 1.192 unità. Per la Rsi abbiamo solo qualche dato parzialissimo, ma pure significativo.
Per rimanere nella Regione Friuli-Venezia Giulia, su un totale di 242 finanzieri infoibati o uccisi dagli Slavi nel 1945, 28 sono Sardi; mentre gli stessi assommano a 47 su un totale di 1.212 militari uccisi nelle medesime circostanze. Su un elenco di 74 militi meridionali deportati e deceduti nei lager iugoslavi, 14 sono Sardi. (cfr. Isses, "Foibe - La storia in cammino verso la verità", atti del convegno di studi storici tenutosi a Napoli il 28 gennaio 2001).
Il Battaglione di Bersaglieri "B. Mussolini" impiegato nella Venezia Giulia ebbe 350 caduti, di questi 7 erano Sardi. Al momento della proclamazione dell'armistizio, l'8 settembre, almeno 50-60 mila militari sardi si trovavano nella penisola e in altri territori europei. Di questi, qualche migliaio - soprattutto quelli inquadrati nella Milizia - seguì la sorte dei propri reparti che si schierarono immediatamente con i Tedeschi. Una buona metà fini nei campi di concentramento tedeschi; dei rimanenti si può calcolare che almeno 10 mila si presentarono alle neocostituite autorità repubblicane. Alcune centinaia abbandonarono poi i campi tedeschi per arruolarsi nei battaglioni delle Ss italiane e nelle 4 divisioni italiane (Italia, Littorio, Monterosa e San Marco), che furono costituite e addestrate in Germania.
A questi occorre aggiungere moltissimi volontari, soprattutto studenti che stavano nelle scuole, nei collegi e nelle università del continente, e, infine, vi fu pure una sparuta pattuglia di giovanissimi che avevano lasciato la Sardegna al seguito dei Tedeschi in ritirata. I volontari si arruolarono prevalentemente nei reparti della X Mas del comandante Valerio Borghese.
In totale si può valutare l'apporto dei Sardi alle forze armate repubblicane a circa un 2%, su un totale di circa 500 mila uomini.