Sopra: la lentezza richiede notevoli doti agonistiche...
Sotto: la vita, come un albero di Natale, ci può riservare
tante sorprese
Era qualche giorno prima di Natale e attraversavo la città in un autobus che procedeva per brevi tratti e subitanei arresti. Le strade erano invase dalle auto incolonnate per strada e rallentate da quelle parcheggiate in seconda fila. Clacson che suonavano impazienti, frenesia di persone contrariate dal dover aspettare. Tutti avevano fretta e cercavano di raggiungere velocemente la propria destinazione.
Mi è venuto in mente un libro che un caro amico, purtroppo scomparso giovane, mi aveva regalato tanti anni fa.
Era "La scoperta della lentezza" di Sten Nadolny, un volume pubblicato nel 1983.
Vi si narra la storia di John Franklin, vissuto tra la fine del 1700 e l'inizio del 1800, colui che diventerà uno dei più grandi esploratori artici inglesi.
A dieci anni Franklin non riesce ancora ad afferrare la palla che gli lanciano i compagni; nei loro giochi lo mettono costantemente a girare la corda mentre loro saltano. Sembra un disadattato e non si capisce se è intelligente o no. Rimugina continuamente parole silenziose.
Invece John riflette, accumula esperienze nella memoria e lentissimamente costruisce dentro di sé le granitiche basi di una incrollabile sicurezza.
A quattordici anni comincia la sua avventura e il mare, con l'eterno ritmo immutabile, è la sua naturale vocazione: da ufficiale di marina nelle navi da guerra britanniche, poi nelle spedizioni scientifiche nell'Artico canadese e quindi governatore della colonia penale in Tasmania ed esploratore del mitico passaggio a nord-ovest.
È la storia romanzata di un uomo vissuto in un'epoca lontana, ma è uno schiaffo alla convulsione frenetica e assurda che ha pervaso il nostro tempo. È un suggestivo e poetico libro sul tempo, nel quale la lentezza si trasforma nell'arte di dare un senso e un valore allo scorrere della nostra vita.
È un invito - che io trovo bellissimo - a non avere fretta.
È una garbata requisitoria contro il tempo smarrito nella fretta di fare, arrivare non si bene dove, per raggiungere non so quale meta. È una riflessione sulla necessità di rallentare, un invito a seguire il proprio ritmo e così riuscire a cogliere compiutamente i mutamenti lenti delle cose che ci circondano, riuscendo in tal modo a dare uno sguardo d'insieme sul tutto.
La spasmodica spinta a essere veloci per arrivare non si sa bene dove ci fa perdere la bellezza delle cose che attraversiamo e la gioia di assaporarle. Dovremmo riuscire a fermarci ogni tanto e guardarci intorno e scoprire sensazioni che ormai abbiamo perduto.
Siamo a Natale, un periodo magico dell'anno, il più suggestivo e dolce. Giorni che una volta erano pieni della magica sorpresa dei doni e della compagnia. Un tempo che in qualche modo interrompe il monotono incedere delle nostre giornate.
Una volta era una ricorrenza attesa con meraviglia, siamo tutti in qualche modo in un qualche tempo cresciuti nella magica attesa di quel giorno, unico nella vita di chi crede e anche di chi non crede.
I doni che Gesù Bambino o Babbo Natale ci portava (potevano anche essere due mandarini per chi non era ricco o un piccolo volume grigio della Bur - 80 lire il singolo, 160 quello doppio - oppure un paio di scarpe nuove) erano sufficienti a rendere luminosi quei giorni di festa.
Certo, da vecchio barbogio, posso desolatamente fare il paragone con ciò che da bambini aspettavamo allora e ciò che ora i bambini si aspettano per queste feste.
E la maggior ricchezza profusa nei regali che ora si fanno ai bambini è inversamente proporzionale alla magia e alla meraviglia di allora.
Ma ormai abbiamo lasciato addormentare quello che era il significato del Natale: erano certo i doni che ci scambiavamo, ma era soprattutto la felicità dello stare insieme, anche a tavola certamente, ma certo non con l'ossessione di un pranzo o una cena da fine del mondo.
Guardandoci intorno, ma anche dentro di noi, con sincerità e disincanto, ci rendiamo conto che viviamo in un mondo che è cambiato, crollati i valori che davano senso alla società e come ormai la famiglia, la morale, l'onestà siano diventati valori superflui, quasi fastidiosi.
Ci si scoraggia nel fare queste riflessioni, anche perché ci si rende conto banalmente di essere un microscopico ingranaggio in un meccanismo gigantesco che annulla l'individuo.
Occorre come John Franklin ritornare a essere noi stessi, rimuginare lentamente parole e pensieri e lasciare che gli altri corrano. E riscoprire il piacere dei piccoli gesti, della gentilezza, della parola che aiuta.
Perdere un po' di noi stessi per dare agli altri e ritornare alla semplicità: «
più lentamente, più profondamente, più dolcemente».
La vita è una sola e appartiene solo a noi e a noi è dato l'infinito dono di renderla come crediamo, ricordandoci che «
siamo tutti creature di un giorno».
Riscoprire infine un Natale meno commerciale ma più profondo, più silenzioso, più vicino al Natale di tanti anni fa, quando gli auguri alle persone care si inviavano per posta e non digitando un gelido "Buone feste" a tutti i nomi della rubrica di uno smartphone.