Il generale Oassem Soleimani
L'uccisione di Qassem Soleimani, ordinata da Donald Trump ed eseguita mentre l'iraniano percorreva in auto la strada che collega l'aeroporto a Baghdad, ha sollevato immediato scalpore in tutto il mondo.
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È un atto di guerra», ha tuonato la gran parte degli osservatori internazionali; «
La pace nel mondo ora è a rischio», è stato un altro ritornello.
Sembra che fino a quel drone che ha centrato l'auto sulla quale viaggiava Soleimani il mondo fosse un'oasi di pace. E, dai toni usati, sembra che quell'energumeno di Trump abbia ordinato l'uccisione di un pacifico e innocente agnellino.
E poi perché definirlo un "atto di guerra" e non una semplice risposta a ripetuti atti anch'essi di guerra?
Ci si dimentica che è dal maggio 2019 che l'Iran ha dato inizio a una pericolosa escalation antiamericana e antioccidentale. Bloccare e minare le navi in transito nel Golfo, abbattere droni, insidiare e attaccare le postazioni e i presidi militari occidentali, uccidere "contractor" non sono atti di guerra? E infine perché assediare l'ambasciata americana a Baghdad?
Trump non è Carter e gli Iraniani ne hanno avuto la riprova.
Tutti questi atti - la regia è sempre dell'Iran e Soleimani era lo stratega - sono atti di guerra che solo chi è prevenuto e tende a minimizzare può ignorare. Continuiamo a diminuirne la gravità solo perché sono atti sporadici, condotti in maniera nascosta, senza proclami, mascherando l'emblema del mandante, convinti che chi li subisce non debba aver motivo di reagire.
Sicuramente Trump non conosce perfettamente la psicologia del mondo islamico e medio-orientale, ma anche quel mondo non conosce la psicologia del mondo americano.
L'assedio all'ambasciata americana a Baghdad ne è un chiaro esempio. I precedenti dell'assalto all'ambasciata a Teheran ai tempi di Carter e a quella di Bengasi durante il regno dell'imbelle Obama sono scolpiti nella mente degli Americani e non era plausibile che Trump ingoiasse anche questo affronto, colpito come sempre dal gesto simbolico del rogo della bandiera americana.
Evidentemente era stata superata una "sottile linea rossa" che Trump, a differenza di Obama in Siria, non ha spostato oltre.
E nella notte è scattato il benestare all'uccisione di Soleimani.
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Sono nato soldato e morirò soldato»: è la promessa fatta da Soleimani all'ayatollah Alì Khamenei.
Comandante della famigerata Brigata "Gerusalemme" - la divisione speciale dei pasdaran che si occupava delle operazioni extraterritoriali - Soleimani era considerato il numero due nella gerarchia iraniana, più popolare anche del presidente Rohani.
La sua uccisione si inquadra perfettamente nella strategia antiiraniana che Trump persegue dal 2018, convinto che la turbolenza di tutta quell'area risponda alla precisa strategia voluta da Khamenei.
La denuncia del trattato sul nucleare firmato da Obama e da alcuni paesi europei era stato il primo passo. L'Iran non dava segno di aderire agli accordi firmati, continuava a fabbricare missili in grado di trasportare testate nucleari (e continuava sulla strada della bomba atomica, come ampiamente dimostrato dal Mossad israeliano).
Sotto la direzione di Soleimani l'Iran ha continuato la sua opera di contrasto, in ogni modo e in ogni dove, del potere sunnita (laddove ne aveva convenienza) e ad assediare Israele, l'entità da distruggere.
Ha consolidato Assad in Siria, ha continuato ad armare Hezbollah in Libano, utilizzandolo con il suo supporto in vaste aree della Siria, comprese le alture del Golan; altrettanto ha fatto con Hamas a Gaza, cercando di terrorizzare Israele anche a sud. Ha cercato di indebolire l'Arabia Saudita tramite gli Houti dello Yemen.
Ma chissà perché, tutti questi non sono considerati atti di guerra.
Quest'uomo, nato a Rabord, un piccolo villaggio di montagna nella provincia di Kerman, vicino al confine dell'Afghanistan, è riuscito a ridisegnare lo scenario geo-politico del Medio Oriente a favore dell'Iran, divenendo la persona "più operativa e potente" dell'area.
Il sessantaduenne Soleimani pochi giorni fa è stato inserito dalla rivista The Times nella classifica dei 20 personaggi protagonisti del 2020. Ma la decisione di Trump - al di là delle ovvie ripercussioni sull'opinione pubblica americana nell'anno delle elezioni presidenziali - risponde a più ampie esigenze strategiche.
Le minacce di vendetta del presidente Rohani e del ministro degli esteri Zarif non possono far dimenticare alla popolazione iraniana che Soleimani aveva ordinato alle sue Guardie della Rivoluzione di sparare sulle folla durante le manifestazioni di protesta del 2009. Popolazione che sembra rendersi sempre più conto della politica imperialista dei suoi vertici, del folle sperpero di denaro nel perseguire mire egemoniche su tutto il Medio Oriente, mentre la miseria dilaga sempre di più.
Probabilmente Donald Trump spera in una rivoluzione interna che spazzi via un regime che ormai da quarant'anni sconvolge gli equilibri di un'area di per sé già fragile.
Il tempo dirà se ha avuto ragione o no.
Il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha fatto un giro di telefonate cercando di spiegare le motivazioni alla base della decisione di Washington. Ha così chiamato leader e alleati a Mosca e Pechino, Istanbul, Kabul, Islamabad, Abu Dhabi, Doha e Parigi, Berlino e Londra.
Non ha chiamato Roma perché non contiamo niente.
I più pessimisti parlano di WWIII, rischio di terza guerra mondiale.
Quelli più scettici parlano di una intensificazione dell'attuale strategia: colpire nascosti e mascherati obiettivi significativi (americani, israeliani, occidentali). Cioè la prosecuzione di quello che da decenni ormai è la strategia dell'Iran, direttamente o indirettamente, che però nessuno ha il coraggio di definire "atti di guerra".
Non sono prospettive rosee, poiché ancora una volta soggetti razionali come quelli che si muovono nell'ambito del mondo occidentale, devono cercare di fronteggiare elementi mossi da motivi non razionali - secondo la nostra definizione - che agiscono in modo imprevedibile.
È una lotta impari, condotta con mezzi che Lee Harris, nel suo "Il suicidio della ragione", definisce asimmetrici, in una prospettiva certamente non favorevole per il mondo occidentale.