EXCALIBUR 103 - giugno 2018
in questo numero

Celebrazioni e morti per i 70 anni di Israele

Il solito rituale di sangue nel confine tra la Striscia di Gaza e lo Stato ebraico

di Angelo Marongiu
Sopra: disordini al confine tra Gaza e Israele
Sotto: l'annuncio della nascita del nuovo Stato di Israele
Lo scorso maggio Israele ha celebrato il 70º anniversario della nascita del suo Stato.
Sono stati anni di storia travagliata, piena di successi e di sangue.
Successi nel campo economico, tecnologico e militare, ma anche costellati da una latente inquietudine per le divisioni interne mai sopite e per la costante minaccia esterna.
Sono 23.465 le vite dei soldati, poliziotti e civili israeliani vittime del terrorismo e delle guerre. A questi vanno aggiunte le centinaia di vite di Ebrei uccisi in tutto il mondo solo per la loro appartenenza religiosa.
E a questi si aggiungono anche le decine di migliaia di Palestinesi morti per una causa impossibile, spinti dall'odio e dal fanatismo, troppo spesso mandati a morire in modo e per cause strumentali.
Nei primi giorni di maggio le manifestazioni di protesta promosse da Hamas lungo la Striscia di Gaza sono costate la vita di centinaia di Palestinesi e il ferimento di migliaia di manifestanti: la repressione di Israele contro tali disordini - ovviamente enfatizzata dai media di tutto il mondo - ha impedito che il caos si estendesse all'interno dello Stato, anche se decine di missili sono stati comunque lanciati.
Un inferno, quella della Striscia di Gaza, che ormai dura da oltre 12 anni - da quando Hamas ha spazzato via con la violenza i rappresentanti dell'Autorità palestinese - e che periodicamente viene ridestato quando l'attenzione del mondo sembra diminuire riducendo la questione palestinese a una mera routine di instabilità.
Anche questa volta - dopo il caos - la tensione è gradualmente scemata, finché la vita è ripresa normalmente, con la riapertura degli edifici scolastici e il ritorno al lavoro nei campi agricoli di confine tra la Striscia e Israele.
La solita fiammata di violenza, come per ricordarci che Hamas esiste ancora, ben messa in evidenza dalla nostra stampa, ma abbondantemente ignorata dal mondo arabo, tranne che dalla Turchia e dall'Iran pronti a inveire contro Israele minacciandone l'estinzione, ma guardandosi bene da andare oltre le parole.
Hamas ha fatto poi sapere che in seguito a mediazioni (egiziane) le fazioni armate della Striscia sono disponibili (bontà loro) a un cessate il fuoco con Israele.
E così si è ritornati al solito stile di vita.
Per Israele niente di nuovo. Il continuo all'erta lungo i confini con la Striscia fa ormai parte del suo stile di vita. Fa parte del costo di essere una nazione libera che tale vuol restare. E comunque un costo enorme: mantenere inviolati i suoi confini, mantenere la sua capitale, la sua bandiera, la sua lingua.
Ha un costo in vite umane - i circa 24 mila morti, un numero spropositato in uno stato tremendamente piccolo - ha un costo economico immenso per i necessari investimenti nella difesa, nella ricerca tecnologica, negli armamenti. Perché Israele non può permettersi di essere o di apparire debole e le ritorsioni agli attacchi che subisce e che immancabilmente vengono definite "spropositate" sono il solo modo per dimostrare che attaccare Israele ha sempre - per tutti - un costo altissimo.
Nonostante ciò, l'82% degli Israeliani è fiero di esserlo e definisce il proprio Paese "un posto in cui è bello vivere".
Siamo sicuri che i cittadini di altri stati darebbero la stessa risposta?
Eppure Israele è un paese in costante crescita: dagli 806 mila cittadini di 70 anni fa è passato agli 8,8 milioni di oggi. Ha assorbito oltre 3,2 milioni di immigrati - con un costo altissimo per le spese di inserimento, alfabetizzazione, nuove case - senza chiedere niente a nessuno e senza nessuna organizzazione internazionale che li aiutasse, senza alcun finanziamento Onu o europeo che li assistesse. E se anche li avesse ottenuti non li avrebbe certo spesi per acquistare nuove armi o per scavare tunnel sotterranei tra un confine e un altro.
Numeri incredibili per una nazione nata povera e circondata da nemici, ma nella quale tutto è più grande della vita stessa.
Una nazione che ha liberato oltre mille nemici pur di avere indietro uno solo dei suoi soldati. Uno scambio che a Gaza è stato festeggiato come una vittoria, ma che dimostra lo squallore nella considerazione della vita umana (soprattutto per i suoi cittadini) e un disprezzo per il senso comune della civiltà.
Una nazione nella quale subito dopo i festeggiamenti per l'anniversario della sua nascita, si sono celebrate 24 ore di lutto totale, in cui si sono versate lacrime per ogni uomo o donna morto per mantenere in vita lo stato. La guerra e l'odio hanno reciso molte vite e le visite ai cimiteri onorano le tombe di chi è scomparso cinquant'anni fa o di chi è morto ieri mattina.
Un compleanno nel quale Israele celebra i suoi settant'anni di vita, ma ricorda anche - non solo a se stesso, ma a tutto il mondo - i suoi tremila anni di storia e l'affermazione di grandiose verità alle quali tutti noi siamo legati: dal monoteismo alla stringente etica morale alla quale ognuno di noi è strettamente legato.
Ma sono cose delle quali ci siamo dimenticati. L'avversione contro Israele permea tutta la classe intellettuale (chiamiamola così perché ormai è una casta autorefenziale), imputando allo stato ebraico anche il sacrosanto diritto di autodifesa. Da Gaza o dal Libano possono partire decine di missili contro Israele, l'Iran può costruire basi militari in Siria e tutti tacciono: ma quando scatta qualche rappresaglia contro queste palesi violazioni di sovranità, allora lo Stato con la stella di David viene immediatamente messo sotto accusa.
In Israele esistono restrizioni di movimento in alcune parti del paese? Esistono dei limiti alla stampa in merito a notizie che possono mettere in pericolo la sicurezza nazionale? Certamente.
Ma chi accusa Israele di tutto ciò dimentica - inconsciamente o volutamente, il che è peggio - che Israele è uno Stato in guerra perenne e che mentre noi ci dilettiamo a leggere le quotazioni di Borsa o le novità del calcio-mercato - centinaia di persone in Israele controllano, ogni mattina, che le sirene che allertano i cittadini per l'arrivo di missili da Gaza o dal Libano funzionino perfettamente.
È questo un paese normale? Certamente no, non lo è. Non può esserlo, ma tutti pretendono che lo sia. E pretendono che sia non come il nostro, ma migliore del nostro.
È di questi giorni la notizia che la nazionale argentina ha annullato l'amichevole di calcio con la nazionale israeliana. Motivo: minacce da parte palestinese ai calciatori sudamericani e alle loro famiglie. Quindi, nessun rischio e pazienza per i 35 mila biglietti venduti in pochi minuti. È questo il succo dei rapporti tra Israele e il mondo che lo circonda.
Il mondo palestinese non sa far altro che minacciare (è certamente abile nello strumentalizzare i fatti e Gerusalemme è l'eterno pretesto) e gli altri - invece di dimostrare spina dorsale, coraggio e coerenza - si prostrano e strisciano perché hanno paura.
Poi naturalmente sono pronti, alla prima occasione, ad alzare il ditino e fare prediche.
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