EXCALIBUR 33 - gennaio 2002
nello Speciale...

Sconfitti o vincitori?

A sinistra: Alcide De Gasperi e Ernest Bevin
Sotto: le corazzate italiane "Italia" (ex "Littorio") e "Vittorio Veneto", restituiteci da Americani e Inglesi con l'ordine di "rottamarle"
Nel piccolo quando la Germania si arrese ci considerammo anche noi "vincitori", tant'è che protestammo vivacemente quando fummo esclusi dall'elenco dei paesi che avrebbero accolto la resa dei Tedeschi. Pertanto la "nuova Italia" poteva e doveva essere considerata alla stessa stregua dell'Italia ante 28 ottobre 1922; certo bisognava restituire l'indipendenza all'Etiopia, ma il resto non si doveva toccare, soprattutto Trieste, Fiume, Pola, le vecchie colonie e la flotta... peccato che gli Alleati avessero idee opposte in proposito.
Alla fine del 1946 arrivò l'imposizione del trattato di pace (equo e giusto, secondo gli Alleati) a troncare, con la durezza delle sue clausole e con le altrettante questioni lasciate in sospeso, da Trieste alle colonie, tutte le illusioni dell'antifascismo.
«Tutte clausole di confini, di servitù militari, di imposizioni e limitazioni economiche»: così veniva bollato il trattato di pace da Alcide De Gasperi in un discorso all'Assemblea Costituente. La stessa Assemblea, nel febbraio del 1947, ratificò il trattato non «per cupidigia di servilismo», come tuonarono alcuni vecchi e nuovi tromboni della politica quali Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce, ma per il semplice motivo che la ratifica dello stesso era conditio sine qua non affinché l'Italia non venisse più considerata territorio occupato e venisse sgombrata dalle truppe alleate. Pur tuttavia il governo non rinunciò a chiedere «una revisione radicale di quanto può paralizzare o avvelenare la vita di una nazione di quarantacinque milioni di esseri umani congestionati in un suolo che non li può nutrire». Così De Gasperi in una circolare inviata agli ambasciatori.
Ma gli alleati ci consideravano pur sempre ex nemici. A fronte di una richiesta italiana di rivedere alcune clausole del trattato di pace che riguardavano la consegna della flotta e delle colonie, il governo inglese chiese in proposito il parere al Lord dell'Ammiragliato; ecco la risposta: «L'atteggiamento della marina è fortemente ostile a che si permetta agli Italiani di dimenticare così facilmente di averci pugnalato alle spalle e di averci procurato nel Mediterraneo danni irreparabili nel momento in cui stavamo combattendo da soli contro l'Asse», e ancora: «È necessario ricordare in maniera gentile agli Italiani che ci hanno dichiarato la guerra e che noi li abbiamo sconfitti. Ma prima della loro disfatta ci hanno provocato danni irreparabili che noi non possiamo e che essi non dovrebbero dimenticare. A causa di tali danni siamo una nazione povera, tanto quanto loro».
Un verbale del Consiglio dei Ministri del 26 maggio 1948 recitava: «[...] (De Gasperi, n.d.a.) riferisce sul viaggio (Parigi e Bruxelles, n.d.a.) [...]. Pesa una freddezza dell'Inghilterra, motivata specie dal dubbio sulla solidità della politica italiana [...]. Pesa purtroppo ancora oggi su di noi il pensiero della guerra trascorsa. Gli Americani hanno dimenticato [...], gli Europei no». Ma qui De Gasperi sbagliava: se era vero che gli Stati Uniti avevano rinunciato ad alcune parti del trattato di pace, a metà del 1948 il nostro ambasciatore a Washington, Tarchiani, riferiva l'ammonimento del direttore degli affari politici del Dipartimento di Stato americano: «[...] mantenere gli impegni per la demolizione delle due navi da battaglia restituiteci dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna [...]. Una nostra troppo evidente ansietà di riarmare o di conservare armamenti non indispensabili [...] può fornire elementi a diffidenze non del tutto sopite».
Diffidenze che venivano da lontano, legate a numerosi episodi di impronta antiamericana datati già dal primo governo Badoglio del Regno del Sud: il 14 marzo del 1944 un comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio annunciava la ripresa delle relazioni diplomatiche fra l'Unione Sovietica e il Regno del Sud, e la decisione di procedere allo scambio dei rappresentanti diplomatici. Era un'evidente violazione delle condizioni dell'armistizio che irritò moltissimo gli Alleati, i quali credettero alle plateali bugie del segretario generale del Ministero degli Esteri, Renato Prunas, che raccontò loro essere il riconoscimento di un'iniziativa unilaterale sovietica. Gli Inglesi affermarono di essere stati ingannati da un alleato (l'Unione Sovietica, n.d.a.) che aveva preso un'iniziativa facendo in modo che sembrasse venire dagli Italiani. In realtà si trattava di una spregiudicata azione di Prunas, che aveva "agganciato" e "lavorato" i Russi sin dall'ottobre del 1943, allorché, rientrando da Lisbona, fece tappa ad Algeri, ove ebbe un abboccamento con Bogomolov, rappresentante russo presso il Comitato Francese di Liberazione Nazionale. Prunas, da diplomatico avveduto qual era, avvertendo il malumore sovietico nei confronti degli Alleati, causato dalla loro esclusione dalla commissione di controllo alleata che gestiva gli affari italiani, pensò bene di sfruttarlo per conseguire due obiettivi: il primo era di riuscire a ottenere un alleggerimento delle imposizioni dell'armistizio; il secondo era quello di costringere il partito comunista ad abbandonare la pregiudiziale antimonarchica e antibadogliana. Conseguì il secondo obiettivo, ma non il primo, perché i Russi, a onta di tutto, non potevano né, per varie ragioni, volevano che il controllo degli alleati sull'Italia si attenuasse.
Sempre nel marzo del 1944, il nostro incaricato d'affari Livio Corbaccio, appositamente autorizzato da Prunas, riconosceva il governo del generale argentino Edelmiro Forrel (Vicepresidente Peron), considerato filo nazista. Gli Americani, irritatissimi, chiesero al capo del governo Bonomi (succeduto a Badoglio) di destituire Corbaccio e di rompere le relazioni diplomatiche con l'Argentina. Ma Bonomi non era da meno... Il 7 agosto del 1944 scrisse una lettera a Stalin in cui, fra l'altro, si diceva: «Il popolo italiano riprende dunque a vivere [...]. Aggiungo che tale ripresa potrebbe essere altrimenti rapida se da un lato i controlli alleati non la soffocassero attraverso una enorme burocrazia straniera, e se dall'altro le non ben definite spese di occupazione, le arbitrarie requisizioni di ogni bene, la sconosciuta massa di circolante immessa dalle truppe alleate nell'economia italiana, l'alto livello del cambio fissato tra sterlina, dollaro e lira non dissanguassero il popolo e non ne stremassero ogni già esausta risorsa [...]. Il popolo italiano [...] non può essere indefinitamente compresso sotto l'attuale sistema di paternalismo straniero [...] in nome della libertà democratica di cui è, in sostanza, la negazione [...]. Se, dunque, le simpatie del popolo italiano si orientano verso la Russia Sovietica [...] ciò avviene [...] perché le catene dell'armistizio sono veramente pesantissime e perché la Russia Sovietica ci ha dato prove di amicizia che non ci sono venute da altre parti».
Nel luglio del 1946 un altro avvenimento fece rizzare le orecchie agli Americani: il Ministro degli Esteri Sforza compì una tournée nelle principali capitali del Sudamerica, ufficialmente per trovare appoggi alla rivendicazione italiana per un giusto trattato di pace, in realtà anche per sminuire la leadership U.S.A. in quei luoghi. Scrive infatti, il 9 ottobre del 1946, il Presidente del Consiglio De Gasperi: «Incitai in ogni capitale gli Americani del Sud [...] a professare quella solidarietà latina [...] escludente ogni rischio di assorbimento nordamericano [...]. Io sentii che predicavo quasi sempre a dei convertiti». Poco dopo Sforza, in seguito all'appello lanciato dal Primo Ministro inglese Bevin per una intesa con l'Europa Occidentale in funzione antirussa, dichiarava all'ambasciatore argentino stupito che l'Italia sarebbe stata felice di collaborare con l'Inghilterra su un piano di assoluta parità (implicito: militare), voleva partecipare alla fase preparatoria degli accordi e che in quella sede dovevano anche risolversi le difficoltà create all'Italia dal trattato di pace. Tutte cose che ovviamente gli Inglesi si guardarono bene da prendere in considerazione.
Toccò di peggio al generale Marshall (purtroppo i documenti tacciono sulle sue impressioni) allorché l'ambasciatore a Washington, Tarchiani, gli fece presente che l'Italia doveva partecipare alla messa a punto del trattato di pace con la Germania, cioè sedersi al tavolo dei vincitori e con essi infliggere le sanzioni agli ex alleati tedeschi!
Benché la schiacciante vittoria democristiana alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 avesse segnato una decisa collocazione dell'Italia nel mondo occidentale, l'atteggiamento degli Alleati rimase negativo. Da Parigi l'ambasciatore Quaroni comunicò al Ministero degli Esteri: «A Bruxelles e a L'Aia [...] si era contrari alla revisione (del trattato di pace, n.d.a.). A Londra ci si era dimostrati contrari anche al riarmo tacito (dell'Italia, n.d.a.): secondo gli Inglesi non ci si poteva fidare ancora della nuova Italia non nel senso comunista, ma nel senso nazionalista». La democrazia cristiana aveva un fortissimo substrato nazionalista e quanto al ministro degli esteri Sforza, «sotto le sue apparenze internazionalistiche nascondeva un nazionalista arrabbiato».
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