EXCALIBUR 29 - settembre 2001
in questo numero

Il futuro dell'economia globale

Chi sono i veri nemici della globalizzazione e quali sono i veri motivi che li animano?

di Ernesto Curreli
Capire perché la sinistra ce l'abbia tanto con la cosiddetta "globalizzazione" non è impresa semplice: bisognerebbe prima capire cosa sia e da chi sia composta. Essa raccoglie, infatti, un po' di tutto. Gli anarchici risorgenti dei black block, ad esempio. Odiano qualsiasi istituzione dell'Occidente, dove però amano vivere per le comodità che offre. La globalizzazione, tipica connotazione occidentale, è diventata il loro nuovo nemico. In passato avete mai sentito parlare di movimenti anarchici operanti nel blocco sovietico? E oggi di suoi circoli a Cuba, in Cina, Vietnam o Corea del Nord? O nei Paesi emergenti? I giovani contestatori del ricco Occidente sono solo il prodotto disadattato delle metropoli bianche, dove il disagio giovanile provocato dalla competizione sociale sfocia spesso nella droga, nella noia o nella violenza. È soprattutto quest'ultima caratteristica che distingue gli anarchici dei nostri tempi, tant'è vero che il nerbo forte dei loro gruppuscoli è costituito dai praticanti domenicali della violenza negli stadi. Lottare contro la globalizzazione significa per loro ammantare di ideologia ciò che in realtà è il loro impulso irrazionale.
I neo e i veteromarxisti, dal canto loro, identificano la globalizzazione col vecchio nemico capitalista. Contro di essa si sono schierati da subito, ritrovando nuovo vigore ideologico e nuovi adepti. Prima di tutto per un motivo pratico: la globalizzazione, tra le tante altre cose, significa anche la fine dei grandi concentramenti industriali, nei quali le masse operaie fornivano l'alimento ideologico e la pratica quotidiana della lotta di classe. La sinistra marxista ha impiegato più di un decennio per comprendere che era giunta un'epoca nuova. Quando finalmente lo ha realizzato, era troppo tardi per trovare rimedi ideologici e una nuova politica operaista col braccio operativo dei sindacati. A questo punto è riuscita a delineare soltanto una teoria complottista, secondo la quale il capitalismo avrebbe portato avanti un disegno strategico di penetrazione mondiale e di accerchiamento dei felici Paesi dell'Est, tanto da farli cadere.
Il fatto singolare è che contro la globalizzazione "capitalista" si battono anche molti ambienti genericamente di destra o anche di formazione fascista o neofascista. È noto che molti intellettuali fascisti dell'anteguerra furono ferocemente anticapitalisti e confusamente antimodernisti. «Nelle grandi nazioni - scriveva James Strachey Barnes, naturalizzato Italiano e più conosciuto da noi col nome di Giacomo Barnes, autore di "The universal aspects of fascism" del 1927, recensito anche da T. S. Eliot su "The criterion" - specie in quelle altamente industrializzate, l'indigenza e la disoccupazione regnano dappertutto, accanto alle più strabilianti ricchezze detenute dalla classe capitalista. La massa è proletarizzata...» (Giacomo Barnes, "Giustizia sociale", Ed. Barbarossa, 1995, Milano). Per non parlare di Ezra Pound e della sua quasi ossessiva lotta contro la finanziarizzazione dell'economia: «Quel secolo sporchissimo che è il secolo XIX, secolo d'usura, (ossia il secolo che vide l'affermarsi della finanza sul mondo della produzione, n.d.a.) costruì una metafisica satanica, elaborò una transustanziazione non religiosa ma economica. J. Stuart Mill [...] (ha contribuito a creare, n.d.a.) la superstizione che la virtù, l'energia del lavoro è concentrata propriamente nella moneta» (Ezra Pound, "Idee fondamentali", a cura di Caterina Riccardi, Ed. Lucarini, 1991, Roma).
In tempi a noi più vicini, ecco due altri autori poco conosciuti, ma non per questo meno rappresentativi del pensiero postfascista. Uno è Walter Beveraggi Allende, docente di economia presso l'Università di Buenos Aires e fondatore di Aciòn Nacional Argentina, un partito di destra sociale: «Il potere finanziario o sistema finanziario "transnazionale" è attualmente una struttura monopolistica praticamente assoluta. La sua azione, su scala internazionale, mediante la strategia pratica del monetarismo, lo ha dimostrato. Questa struttura, però, non è solo ed esclusivamente economica, ma i suoi obiettivi, i suoi disegni, sono chiaramente politici, com'è stato messo in luce, e si sono manifestati senza alcuna dissimulazione nel decennio degli anni '70 [...] (e sono stati favoriti, n.d.a.) da schiere di giornalisti, professori universitari, dirigenti sindacali e politici...» (W. B. Allende, "Teoria qualitativa della moneta", Ed. Ar, 1993, Padova). Di nuovo la teoria complottista, che evidentemente non appartiene soltanto alla sinistra.
Mario Di Giovanni, autore di libri peraltro molto documentati su globalizzazione e mondialismo, non è da meno: «Lo sfruttamento del Sud del mondo non va addebitato a un capitalismo d'assalto trascinato dal suo stesso slancio, ma a pianificazioni freddamente calcolate dai poteri forti e operanti da mezzo secolo [...] (nei confronti del Terzo Mondo; questa pianificazione, n.d.a.) si traduce nell'eliminazione dell'agricoltura di sussistenza, riconvertita alle monocolture richieste dal mercato internazionale: è accaduto che popolazioni del Sud patissero la fame mentre i loro governi esportavano al Nord produzione agricola di qualità» (M. Di Giovanni, "Indagine sul mondialismo, il diavolo, probabilmente", Ed. Effedieffe, 1999, Milano).
Ma anche il mondo cattolico e quello vagamente socialdemocratico non sono da meno in quanto a critiche contro la globalizzazione, in nome di un giusto quanto utopistico solidarismo sociale, al quale però non riescono mai ad affiancare una qualsiasi proposta concretamente sostenibile. Teorie che difficilmente trovano il coraggio di individuare le cause frenanti, nei sistemi ancora semifeudali o totalitari, che ancora opprimono o rallentano o dissipano in armamenti le economie dei Paesi poveri.
Nell'una e nell'altra parte le posizioni sono alquanto confuse. Si identifica la globalizzazione, che è fenomeno essenzialmente economico, tra l'altro storicamente nato in Oriente, in Giappone, con il sistema produttivo toyotista, contrapposto appunto all'ormai obsoleto modello fordista americano, con la mondializzazione dei problemi, che è semplicemente il risultato del manifestarsi del "Villaggio globale". E ciò in conseguenza dell'enorme progresso compiuto dalle tecnologie informatiche, che ci fanno conoscere in tempo reale i problemi del pianeta. I quali, ovviamente, esistevano anche prima, ma percepivamo in modo lontano ed estraneo. Poi, alla globalizzazione, specie dai nazionalismi di destra - ai quali curiosamente si sono prontamente affiancati gli esponenti del vecchio internazionalismo marxista - viene imputata la lenta ma inesorabile uniformazione delle culture, quasi che questa fosse un risultato economico anziché il prodotto inevitabile dell'apertura mentale moderna, fattasi più accorta per gli orrori del passato. L'assimilazione, impensabile fino a pochi decenni addietro, è anche favorita dalla straordinaria facilità di interscambio delle comunicazioni planetarie, dalla liberalizzazione in tutti i settori, dall'affermarsi di sistemi democratici in ogni angolo e dal miglioramento dei sistemi di spostamento delle genti. Questo nuovo sistema di vita ha determinato una più diffusa tolleranza e comprensione delle terzietà culturali e religiose che ci circondano, ci accompagnano e ci influenzano.
Insomma, è innegabile che la globalizzazione dell'economia abbia portato quasi tutti i Paesi dell'Occidente e alcuni tra quelli d'Oriente (il Giappone e le cosiddette "tigri economiche" asiatiche) a un innalzamento delle condizioni di vita, i cui effetti positivi si stanno riversando in molti altri Paesi del Terzo Mondo. Nell'ultimo decennio, ben mezzo miliardo di persone sono state strappate alla fame in Africa, in Sud America e in Asia. La tecnologia, inoltre, che con la globalizzazione non c'entra affatto ma che con essa interagisce, sta determinando un abbattimento universale dei prezzi dei generi alimentari e di quelli di più largo consumo. Il progresso delle tecniche di conservazione dei prodotti alimentari, quello dei trasporti e del sistema decentralizzato di produzione rendono questi beni sempre più accessibili a fasce di popolazione che prima ne erano escluse. A dispetto di ogni critica, uomini e imprese del XXI secolo continuano con sano pragmatismo a spingere sull'acceleratore del progresso dell'umanità.
Ma per i dogmatici eredi delle ideologie totalitarie del XX secolo, tutto ciò è negativo, perché viene determinato non da "pensieri forti" che pensano per noi a tutto, anche alla nostra felicità, ma dalla deprecata libera iniziativa degli uomini, l'unica che fin dagli albori della storia ha consentito di innalzare l'uomo al di là degli angusti spazi dei conservatori.
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