Imprescindibile diritto al lavoro
I princìpi liberisti europei contro i cardini del diritto del lavoro.
Il diritto del lavoro è da molti anni oggetto di controriforme ispirate ai principi liberisti contenuti nei trattati europei. Tale tendenza ha preso l'avvio soprattutto a partire dall'
Atto Unico Europeo del 1986, con il quale si è passati dalla fase del mercato comune a quella del mercato unico, per proseguire con il
Trattato di Maastricht sull'Unione Europea del 1992 e in ultimo con il
Trattato di Lisbona del 2007.
C'è stata una progressiva mercificazione e disumanizzazione del fattore lavoro, sancita in linea di principio nei trattati e penetrata negli ordinamenti giuridici nazionali attraverso lo strumento di normazione ordinaria costituito da regolamenti e direttive, soprattutto a seguito del riconoscimento della primazia del diritto comunitario in base alla sentenza Simmenthal (Corte di Giustizia europea, 1978) e Granital (Corte Costituzionale italiana, 1984) e della responsabilità statale per la mancata applicazione delle direttive in base alla sentenza Francovich (Corte di Giustizia europea, 1991). L'intervento pubblico è stato progressivamente escluso dal novero degli strumenti della politica economica in virtù dei principi della concorrenza e del divieto degli aiuti di Stato alle imprese, al quale ultimo però si fa eccezione per le banche, che vengono regolarmente e sempre più generosamente foraggiate. Abbandonata l'idea stessa di una politica industriale, non si riesce più a garantire i diritti che la Costituzione della Repubblica Italiana, teoricamente "fondata sul lavoro", dovrebbe garantire ai suoi cittadini lavoratori. Dall'altro lato, un ulteriore elemento di confusione e di disordine nella normativa in materia di lavoro è stato introdotto con la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione (2001), che ha improvvidamente incluso nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni la "tutela e sicurezza del lavoro" e la "previdenza complementare e integrativa".